la Repubblica, 19 novembre 2017
Myung-Whun Chung: «Il mio Verdi? Melodia, idee e valori»
Alla Fenice si aprono le danze: non in senso figurato, ma veramente con Un ballo in maschera.
Sarà quest’opera di Verdi, popolarissima nel mondo, a inaugurare la stagione del teatro veneziano il 24 novembre. Sul podio c’è il direttore d’orchestra coreano Myung-Whun Chung, esperto interprete verdiano e musicista attivo nelle migliori orchestre del pianeta. Durante la sua fertile carriera ha governato fra l’altro l’Opéra di Parigi, Santa Cecilia e la Philharmonique di Radio France. Gestualmente ha il piglio e la nettezza di un samurai, e ogni sua esecuzione testimonia un forte senso etico nell’approccio alla partitura. Abita in Provenza, è padre di tre figli maschi (di cui uno è un giovane e promettente direttore d’orchestra), vola spesso in Corea ed è impegnato in numerosi progetti umanitari, pedagogici e di salvaguardia ambientale. Molto apprezzato dal nostro pubblico, collabora con i maggiori teatri d’opera italiani e con istituzioni sinfoniche come la Filarmonica della Scala. Nel teatro milanese ha proposto da poco Il franco cacciatore e l’anno prossimo vi tornerà con Simon Boccanegra e Fidelio. Ma forse è soprattutto con la Fenice di Venezia che coltiva un rapporto speciale.
«È un teatro al quale mi unisce molta amicizia», racconta Chung. «Vi ho già diretto varie opere di Verdi ed è una scelta di campo che si deve anche a Fortunato Ortombina, prima direttore artistico e ora sovrintendente del teatro. Forse è lui il massimo appassionato di Verdi che io abbia conosciuto. Lo ha studiato e approfondito in modo magistrale, e la nostra rispettiva ammirazione per il compositore ha creato un’ottima intesa. Sono legato pure a tutti coloro che lavorano alla Fenice e naturalmente alla sua orchestra».
Il nuovo allestimento del “Ballo” a Venezia, firmato dal regista Gianmaria Aliverta, ambienta l’azione non nel periodo previsto dal libretto, fine Seicento, bensì nella seconda metà dell’Ottocento.
«Cioè nell’epoca in cui fu composta l’opera, che ebbe un destino iniziale travagliato. Si sa che il primo soggetto del Ballo subì la censura: la storia di un marito che uccide il presunto rivale, che per di più è il re di Svezia, venne considerata offensiva dalle autorità. E si era in pieno clima risorgimentale. Perciò Verdi fu costretto a introdurre molte modifiche, dirottando il plot dalla Svezia a Boston, e trasformando il sovrano in un governatore. Sulla scena, a Venezia, tutto accadrà dopo la guerra di Secessione, quando in America era già stato approvato il XIII emendamento con l’abolizione della schiavitù. Il fatto di trasporre la vicenda negli Stati Uniti ha immesso nell’opera personaggi neri e creoli, il che consente di sottolineare le condizioni del popolo afroamericano. Mi sembra un’opzione giusta, perché quell’elemento può accentuare gli ideali di Verdi, che era un impavido e ostinato promulgatore della libertà».
Il cast potrà contare su un protagonista del livello di Francesco Meli.
«È uno di migliori tenori di oggi. Ci conosciamo bene e con lui, tra le altre cose, ho fatto Don Carlo alla Scala. È un cantante sempre intelligente e affascinante sulla scena».
Come definirebbe musicalmente “Un ballo in maschera”, in cui lei diresse anche Pavarotti, il quale reputava quest’opera il suo titolo d’elezione?
«Sì, feci quest’opera venticinque anni fa a Parigi con Luciano. Un ballo in maschera è brillante e non pesante, lontano dal colore più drammatico o tragico di capolavori successivi quali Don Carlo e Otello. La musica suggerisce molta danza, e ai cinque personaggi principali – Riccardo, Renato, Amelia, Oscar e Ulrica – toccano belle arie. È rarissimo che così tante figure possano contare sull’opportunità di avere ruoli vocali di sostanza nella stessa opera».
Lei, maestro, è nato nel 1953 in Corea, dov’è cresciuto. Ma ha avuto un rapporto intenso con l’Italia e in particolare con Verdi. Qual è la sua visione di questo compositore chiave della nostra storia culturale?
«Mi hanno sempre attratto le persone di elevata statura spirituale e intellettuale. E ho avuto la fortuna d’incontrarne qualcuna, come il maestro Carlo Maria Giulini, di cui da giovane fui assistente. Giulini, secondo me, incarnava le stesse qualità che trovo in Verdi: la capacità di guardare all’esistenza con speranza e d’indicare gli obiettivi più autentici dell’essere umano. Nella vita esiste un equilibrio, lo stesso segnalato dalle grandi opere verdiane, capaci di offrirci un ventaglio completo di sentimenti, idee e valori. Si potrebbe dire che questo patrimonio contenga l’ineffabile pienezza della vita. Sono temi che rischiano di apparire generici, perciò affrontarli mi mette a disagio. Ma basta ascoltare la musica di Verdi per coglierli al di là di ogni discorso».