La Stampa, 18 novembre 2017
Intervista a Bice Biagi: «Mio padre Enzo, un grande timido che sapeva far parlare i potenti»
«I libri di memorie dovrebbero essere pubblicati postumi», diceva Enzo Biagi. Detto fatto: a dieci anni dalla morte, ecco La vita è stare alla finestra (Rizzoli), l’autobiografia che non ha scritto ma che è stata assemblata con le sue parole, nelle occasioni in cui raccontò la sua vita invece che quelle degli altri. Il Biagi che non t’aspetti lo racconta la figlia Bice, giornalista pure lei.
Perché Biagi è diventato Biagi?
«Secondo me, per la chiarezza, la semplicità, sia in tivù che sui giornali. La gente lo trovava affidabile. A tutti i livelli: si fidava di lui il lettore e si fidavano di lui i grandi personaggi. Infatti li ha intervistati tutti».
Compresi alcuni dei suoi amici.
«Come Fellini, Mastroianni o Pertini, che aveva anche dei trascorsi giornalistici. Si stimavano molto, talvolta litigando. E allora mio padre gli diceva: “Come giornalista, era più bravo Mussolini”. Ci fu anche uno strano rapporto con Tommaso Buscetta: non certo d’amicizia, ma il personaggio l’aveva colpito. Ricordo una colazione a casa dei miei, c’erano Buscetta, sua moglie e il figlio di cui non ci dissero mai il nome, per sicurezza. Lo chiamavano sempre e solo Junior. Poi c’erano gli intervistati che lo colpivano negativamente. Una volta fece parlare un serial killer, poi raccontò: non ce l’ho fatta a stringergli la mano».
Uno dei capitoli più divertenti racconta il trasloco della famiglia Biagi da Bologna a Milano nel 1951. Sembra «La scoperta di Milano» di Guareschi...
«Un altro dei suoi amici. Senza far torto a Bologna, la città di mio padre è stata Milano. Diceva che è la città che accoglie, quella che dà un’opportunità a tutti».
Era meglio allora o oggi?
«Diversa. Forse all’epoca c’era un altro fermento. La sua era la generazione che usciva dal fascismo e dalla guerra. Era affamata di tutto, di cultura, di sapere, di confronto. Anche il suo primo viaggio in America fu epico, una specie di avventura. Ci portò delle bambole che non avevamo mai visto: erano le prime Barbie».
Dal libro esce molto bene Angelo Rizzoli senior.
«Non solo lui, anche Arnoldo Mondadori, che gli affidò Epoca perché lo avevano colpito i reportage sull’alluvione del Polesine. Allora gli editori leggevano, e leggevano tutto. Rizzoli e Mondadori gli piacevano perché si erano fatti da soli e partendo dal nulla. C’era un fondo di umanità che li accomunava».
Anche della «Stampa» parla con affetto.
«È il giornale che ha amato di più. “Mi ha sempre preso quando gli altri mi mandavano via”, diceva. E non gli ho mai sentito parlare bene di un direttore come di Giulio De Benedetti».
Nonostante il famoso telegramma di dimissioni? De Benedetti non aveva messo in prima un suo pezzo, per inciso magistrale, sull’assassinio di Kennedy visto dall’America profonda.
«Sì, tanto che poi con De Benedetti fece pace e alla Stampa tornò. In quell’occasione si sentì umiliato e così ebbe una delle sue epiche arrabbiature».
Arrabbiature? In tivù sembrava un uomo di una pacatezza zen.
«Lui? Figuriamoci. Era un timido che s’infuriava. Mia madre doveva continuamente portare a far riparare il cinturino dell’orologio perché quando si arrabbiava picchiava dei grandi cazzotti sulla scrivania».
E come padre com’era?
«Da ragazze l’abbiamo visto poco, era sempre al lavoro. Quando c’era, era molto severo. Se papà scriveva, non si poteva fare nemmeno una telefonata. “Non pago dei viaggi di nozze anticipati”, diceva se qualcuna di noi figlie voleva andare in giro con il fidanzato. Quando diventò anziano l’abbiamo scoperto anche come padre affettuoso, perfino tenero. Faceva complimenti, ti diceva: “Sei elegante, oggi”. E ai nipoti permetteva di fare quel che sarebbe stato vietatissimo a noi».
Diceva che era molto timido.
«In maniera patologica. Non entrava mai in un negozio da solo. Lui, che aveva girato tutto il mondo. Anche la sua goffaggine era una forma di timidezza. Dopo che l’avevo visto in tivù gli chiedevo: perché non sorridi di più? E lui, citando Paolo VI: “Dimmi che motivi avrei di sorridere”. Poi però quando si trovava davanti Kennedy o la Thatcher la timidezza spariva, e faceva il suo lavoro».
Torniamo allora al Biagi pubblico: l’«editto bulgaro» di Berlusconi, quando fu cacciato dalla Rai con Santoro e Luttazzi.
«Un brutto episodio. Intanto perché arrivò in un momento difficile, in un anno aveva perso mia madre e mia sorella Anna, dolori che lo hanno segnato. E poi perché lo visse come un’umiliazione: “Togliere il lavoro è togliere la dignità”. Infine, perché era preoccupato non per lui, ma per chi da anni lavorava con lui, la sua redazione, la sua gente. Quel giorno diventò vecchio».
Da collega, gli ha mai chiesto consiglio?
«No, e non per presunzione. Però mi leggeva. Era ossessionato dalle ripetizioni. Frase tipica: “Ricordati: oltre che porta, si può anche dire uscio”. Quando diventai direttore di Novella 2000 si divertiva ai racconti che gli facevo, i pettegolezzi, questo sta con quella, ma davvero?».
Internet lo frequentava?
«Macché. Non ha mai avuto un computer, anzi nemmeno un cellulare. Era l’uomo più privo di manualità che abbia mai conosciuto. Riusciva a stento a comporre il numero con i vecchi telefoni, quelli con il disco rotante. Quando gli feci vedere il sito della Pro Loco di Pianaccio, il paesino dov’era nato, il suo stupore fu lo stesso del mio nipotino che guarda Peppa Pig».
Il suo libro più bello?
«Disonora il padre».
E il pezzo migliore?
«Quello scritto dopo un intervento al cuore, uno dei tanti, dove racconta la sua notte in rianimazione e dice che la preghiera più bella è il Padre nostro».
Lei, Bice, cosa fa adesso?
«Sono felicemente pensionata. Basta giornali, faccio solo la nonna. Ho un nipotino di due anni che si chiama Enzo, è nato in agosto come lui e per molti aspetti lo ricorda. La vita va avanti».