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 2017  novembre 18 Sabato calendario

Totò Riina. I segreti sepolti con il boss

Il capo è morto dopo un quarto di secolo di carcere e 24 anni di latitanza, per nulla faticosa. Una vita interamente dedicata al crimine e a Cosa nostra. Ma la mafia è destinata a sopravvivergli, non scompare l’organizzazione quando viene meno il capo, anche se si chiama Totò Riina. Coi suoi tempi, senza fretta e stando molto attenti a non farsi sorprendere, i boss siciliani cercheranno di rimettere in piedi l’organismo direttivo che consentirà il ricambio al vertice della «società criminale». Certo, difficilmente rifaranno una Cosa nostra uguale a quella di Riina e Provenzano o uguale a quella che c’era prima ancora. Non sarà semplice trovare buoni «quadri» dirigenti: la guerra di mafia ha fatto il deserto dei Tartari e la repressione statale ha finito il lavoro e la politica non sembra più così supina come una volta. C’è una crisi di qualità come mai prima, dentro Cosa nostra. I giovani rispecchiano la pochezza della società che ci circonda: soldi, smartphone e cocaina. Si dovrà andare alla ricerca di qualcuno che possa attirare su di sé il consenso delle famiglie e dei mandamenti rimasti senza guida per 24 anni.

Qualche esperto azzarda e dice che potremmo trovarci di fronte ad una specie di «congresso per la rifondazione di Cosa nostra». Ma una rifondazione difficile perché non potrà non tener conto del passato e della traccia lasciata dal capo appena morto, tutta intrecciata alla tradizione che non vuol cambiare.

Riina ieri notte se n’è andato in perfetto stile corleonese. Portandosi nella tomba i mille segreti di quasi un secolo di cronaca e di storia siciliane e le zone oscure del coinvolgimento mafioso nella vicenda politica nazionale. Totò Riina, capo indiscusso della mafia sin dal 1982, cioè dopo l’eliminazione di don Stefano Bontade ultimo padrino di origine palermitana, è rimasto al vertice di Cosa nostra fino alla morte. Nessuno aveva potuto prenderne il posto dopo la cattura (15 gennaio ’93), anche se condannato all’ergastolo. E ciò per un semplice motivo di natura – diciamo – burocratica: l’organismo elettivo che lo aveva nominato non si è più potuto riunire a causa delle “perdite” subìte da Cosa nostra. Tra morti ammazzati e condannati al carcere a vita, non c’è stato “consiglio supremo” abilitato ad indire nuove elezioni. E così don Totò “u curtu” (o “la belva”, come preferiscono ricordarlo i suoi detrattori) è rimasto comandante, anche dal carcere. Come Luciano Liggio, suo predecessore nella gestione del potere corleonese, prima latitante protetto (fino al 1974) e poi «prigioniero» dello Stato – così amava definirsi -, Riina ha assistito alla chiusura del sipario in silenzio, anzi recitando un’ultima parte: quella dell’attore che va a braccio nel tentativo di confondere il suo pubblico.
Resteranno un grande pezzo di teatro i suoi «dialoghi di fine stagione», intrattenuti con l’anonimo Alberto Lorusso, suo «badante» in carcere e mezzatacca della sottomafia denominata pomposamente Sacra Corona Unita. “U curtu” sapeva perfettamente di essere intercettato dalle microspie dello Stato, eppure parlava, parlava e straparlava allo scopo, forse, di affermare il proprio “status” di capo di Cosa nostra e, nello stesso tempo, di intorbidire e destabilizzare alcune verità fissate persino da sentenze definitive.
C’era tanto folklore nel suo “copione”, ma riguardava l’aspetto minimalista della storia. Arriva ad ammettere l’esistenza della mafia, ma quando già negarla ancora appariva persino ridicolo. Parla di omicidi, della guerra tra uomini d’onore, dei traffici e si rifà esattamente a tutto quanto è stato scritto su libri e giornali, impossibile da rimettere in discussione. Ma, quando entra nelle cose serie, sceglie l’iperbole, l’ironia ed anche certe “ammissioni”, a condizione – però – che coinvolgano «responsabilità superiori», in modo da alimentare l’eterna questione della mafia quasi “vittima” del potere politico. E così le stragi vengono “offerte” come frutto di menti raffinate (usa le stesse parole di Giovanni Falcone) e, ovviamente, Cosa nostra non c’entra nulla. Le stragi, dice al “badante”, “sono cose loro” e “come faceva il ministro Mancino a sapere che mi avrebbero catturato?”. Magistrale l’entrata a gamba tesa in quella fogna a cielo aperto che è l’inchiesta sulla cosiddetta “trattativa”, un processo che gli ha dato la “soddisfazione” di essere imputato insieme con alti servitori dello Stato e persino ex ministri.
Ma quello di imbastardire le acque tirando dentro poteri forti è una vecchia tecnica corleonese. Ci provò Liggio al maxiprocesso, “rivelando” uno scoop che Falcone aveva già ricevuto da Buscetta, cioè il coinvolgimento della mafia nel tentativo di golpe del principe Valerio Borghese. Lui, Totò, si serve del processo sulla trattativa per ribaltare le responsabilità di Cosa nostra tutte sul mondo politico: «Chiedete a loro di trattative e accordi. Il papello? Hanno fatto le prove ed è stato escluso che l’abbia scritto io o qualcuno dei miei familiari». È abile, u curtu, quando deve negare senza mai dire no. Al maxiprocesso i giudici lo definirono latitante (e lo è stato per 33 anni), ma lui serafico: «Signor giudice, veramente io non ero latitante. Il fatto è che non mi cercava nessuno. Io facevo il commerciante, vendevo formaggi, avevo un conto in banca, ho fatto quattro figli. Le sembra l’esistenza di un latitante, questa?».
La vita, la vita grama della giovinezza l’ha messo in condizione di destreggiarsi con tanta abilità. Orfano di padre, morto con il figlioletto di 7 anni (Francesco) mentre cercava di disinnescare una bomba americana e venderla al mercato nero dei metalli, Riina si aggrega alla “famiglia” di Luciano Liggio, che spadroneggia nel feudo di Piano di Scala nelle campagne fra Corleone e Roccamena: macellazione clandestina e guardiania, con tanto di libertà di vessazioni sui poveri contadini alle dipendenze dei campieri al servizio dei ricchi signori. Ma i giovani “liggiani” (c’erano anche Provenzano e Bagarella, la cui sorella, Antonietta, sposerà Riina) scalpitano e mal sopportano l’autorità del padrino di Corleone, il dott. Michele Navarra, dirigente democristiano, medico condotto, autorità politico-sanitaria e direttore dell’Ospedale dei Bianchi. Liggio si libera di Navarra, si scatena la prima guerra di mafia a Corleone. Il processo sulla catena di omicidi si svolge a Bari, ma nel 1969 i “picciotti” vengono assolti. Da quel momento comincia la clandestinità di Totò, Binnu (Provenzano) e Lucianeddu Liggio. Quest’ultimo verrà arrestato a Corleone, ma poi, ricoverato in una clinica di Roma, evaderà senza troppi problemi. Lo riprenderanno nel 1974, a Milano, mentre si accredita come commerciante di vini molto stimato professionalmente. Si scoprirà allora l’esistenza di una donna misteriosa che gli aveva dato un figlio di cui poco si sa- per sua fortuna – ancora adesso.
È Totò Riina l’erede di Liggio. Fa tutto in clandestinità: si sposa in una chiesa di campagna e celebrano tre preti, tra cui padre Agostino Coppola, nipote del boss Frank tre dita. La moglie, Ninetta Bagarella, partorisce quattro figli (Giovanni, Giuseppe, Concetta e Lucia) nella migliore clinica privata di Palermo ed allarga il suo potere fino a “fregare” i supponenti padrini palermitani che avevano sempre trattato con sufficienza i corleonesi, liquidandoli come “viddani”, cioè contadini.
È l’arte della “tragedia” (nel senso siciliano di “tragediare”, insinuare con falsità) la dote principale di Totò. È furbo, sa mettere uno contro l’altro i propri nemici, tiene spie in ogni “famiglia” palermitana e così non gli sarà difficile fare il “colpo di stato” che lo trasformerà in un vero e proprio dittatore. Erediterà anche le amicizie importanti che erano state della mafia palermitana: i cugini Ignazio e Nino Salvo, l’ex sindaco Salvo Lima, l’ex sindaco Vito Ciancimino, tutto il sottobosco politico-burocratico-finanziario si ritroverà dalla sua parte.
Non aveva messo nel conto soltanto un imprevisto: Giovanni Falcone e il suo maxiprocesso. L’intera cupola mafiosa condannata all’ergastolo in via definitiva gli ha fatto franare il terreno sotto i piedi. Per la prima volta nella loro storia i corleonesi non sanno come uscire dal carcere, contano sull’aiuto politico che non arriva. E allora sposa la follia disperata della carta stragista. Convinto da persuasori più o meno occulti, crede nella favola che la mafia può condizionare anche i governi, se messi alle strette con le bombe e la violenza.
Probabilmente conta di poter smentire anche la “saggezza” del suo grande nemico Masino Buscetta, teorico della non bellingeranza contro l’autorità costituita perché «con lo Stato non si fa la guerra». Il resto è cronaca recente ed è il racconto della disfatta di Cosa nostra e persino dei rapporti personali fra vecchi amici. Provenzano indicato da Riina come l’infame che lo ha fatto arrestare, insieme con l’altro infame Massimo, il figlio del loro “paesano” (Ciancimino era corleonese di nascita), è il finale scontato di un film tragico e, purtroppo, reale.