la Repubblica, 18 novembre 2017
Genova si aggrappa alla sua Cassa. «Carige gestita male, ma non può sparire»
La grande paura di Genova si consuma in una delle giornate più drammatiche nella storia di Carige. Una giornata iniziata con l’incubo di un futuro senza ritorno e conclusa con accordo ormai chiuso con il consorzio delle banche che permette di lanciare l’aumento di capitale da 560 milioni. In mezzo c’è una città che si riscopre fragile e ci sono gli sguardi e le parole che si scambiano correntisti e piccoli azionisti che entrano in filiale e chiedono spiegazioni sul futuro. Niente panico e pochissimi addii, però, perché la Carige non è la banca del territorio, ma è ancor più la banca di famiglia, l’istituto in cui «portavo da bambino le monete che avevo dentro alla mia cassettina» spiega Giuseppe, 89 anni, pronto a seguire la “cassa di risparmio” qualunque strada prenda. Sì perché ancor prima di Carige, questa è stata e resta nell’immaginario collettivo di una città conservatrice come Genova “la cassa di risparmio”. «Vogliamo sapere cosa succederà ai nostri risparmi che abbiamo messo nella cassa da tanto tempo – dicono gli anziani in coda – capire cosa sta succedendo, se ne parlano i giornali tutti i giorni vuol dire che è qualcosa di grave». Sono davvero pochi, però, rispetto alle decine di migliaia di correntisti, quelli che voltano le spalle alla loro banca. «Questa è la banca della mia famiglia, da sempre» aggiunge Mario. Quella che un giovane impiegato con il diploma di ragioniere, assunto dopo un colloquio in genovese, aveva un gradino dopo l’altro finito per prendere per mano e condurre in alto, prima di spingerla giù dal precipizio. Era la cassa di Giovanni Berneschi, il dominus dell’economia e della finanza targata Genova. Non c’era progetto o idea che non passasse dal suo tavolo. Nell’anticamera della sua stanza, al quattordicesimo piano del grattacielo di via Cassa di Risparmio, sede della banca, restavano a lungo imprenditori e politici. Per tutti c’era una parola, una stretta di mano, l’impegno a sostenere quel progetto. Erano i tempi in cui la grande crisi non era nemmeno all’orizzonte, quelli del “celodurismo” imperante dentro a una banca che si raccontava come la sesta in Italia per capitalizzazione di Borsa. Anni di scorrerie e di acquisti di banche regionali e di sportelli di altri istituti, con le bandierine che si piantavano via via un po’ in tutte le regioni. Come è andata a finire è cosa nota. Prima le indagini di Bankitalia e della Bce poi le inchieste della magistratura hanno smascherato il saccheggio e la realtà di conti che rispetto a quanto si voleva far credere erano disperatamente diversi. «Eh sì, se Berneschi si fosse allontanato prima non saremmo in questa situazione oggi» dice Federico, che ha il conto in Carige come i suoi genitori.Chi è venuto dopo Berneschi (condannato in primo grado a otto anni di reclusione), non ha potuto far altro che adeguarsi alle direttive dei regolatori, facendo emergere la montagna di sofferenze e di crediti deteriorati che la crisi aveva amplificato, al di là della “mala gestio” dei suoi vecchi amministrativi. Rafforzamenti patrimoniali e accantonamenti, uno dopo l’altro. Tre negli ultimi quattro anni. «Se è per questo io sono già arrivato al quinto» spiega Aldo, dipendente Carige in pensione. «Quello dell’aumento è un meccanismo perverso, ormai non posso più tirarmi indietro – spiega – Spero che serva a salvare la banca». Il dopo-Berneschi inizia con due aumenti di capitale in un anno per 1,65 miliardi. Poi cambia il capitale. La Fondazione Carige, storico azionista capace di arrivare fino al 46% e oggi confinato allo 0,3, si fa da parte e al suo posto arrivano i privati. Entra la famiglia Malacalza, ma entra anche Gabriele Volpi, il re della logistica portuale nigeriana, che per i suoi business italiani rimette in pista l’ex dominus della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani. Malacalza cambia l’ad, sostituendo Guido Bastianini con Paolo Fiorentino, ex Unicredit, che vara un piano industriale che taglia i costi (anche con mille esuberi su 5mila addetti), restringe il perimetro del business (via società, partecipazioni, immobili), vende gli npl e rafforza il patrimonio con denaro fresco. Un altro aumento di capitale, quindi. Per rimettere in sesto Carige e provare a ripartire. Da soli o con nuovi alleati.(ha collaborato Massimiliano Salvo)