17 novembre 2017
APPUNTI PER GAZZETTA - LA MORTE DI TOTO’ RIINAREPUBBLICA.ITAlle 3,37 Totò Riina ha smesso di vivere, non è sopravvissuto agli ultimi due interventi e a cinque giorni di coma
APPUNTI PER GAZZETTA - LA MORTE DI TOTO’ RIINA
REPUBBLICA.IT
Alle 3,37 Totò Riina ha smesso di vivere, non è sopravvissuto agli ultimi due interventi e a cinque giorni di coma. Era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma, in regime di 41 bis (il carcere duro per i reclusi più pericolosi) ormai da 24 anni. E’ stata disposta l’autopsia "trattandosi di un decesso avvenuto in ambiente carcerario e che quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti", spiega il procuratore di Parma, Antonio Rustico.
I familiari non sono riusciti a incontrarlo prima che morisse, nonostante il permesso straordinario ricevuto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri, viste le condizioni del detenuto, aveva autorizzato la visita. Secondo indiscrezioni, la figlia minore del boss è rimasta a Corleone. Riina aveva quattro figli: uno è detenuto e sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi, mentre il minore, dopo una condanna a otto anni per mafia, è sorvegliato speciale. La più piccola delle due figlie femmine vive a Corleone, la maggiore invece si è trasferita da anni in Puglia. Sulla sua pagina Facebook la figlia di Totò Riina, Maria Concetta, sembra lanciare un messaggio che poi è un’indicazione, data subito dopo la morte del padrino. La foto del profilo è una rosa nera, sovrastata dal volto di una donna che emerge da un sfondo scuro e un dito che "taglia" la bocca con su scritto "shhh", silenzio.
Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà.
Ti auguro buon compleanno. Ti voglio bene, tuo Salvo. #totoriina pic.twitter.com/QSD5TidxqZ
• IL ’CAPO DEI CAPI’ E LA GUIDA DAL CARCERE
La stessa fine che invocava per il pm Nino Di Matteo: "Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono". Come sempre, manie di grandezza mafiosa, ma non solo. Il capo dei capi della mafia siciliana ha sempre perseguito una lucida strategia in carcere, quasi un’ossessione: ribadire il ruolo che ha svolto nell’Italia degli ultimi quarantanni e allontanare l’idea che sia stato un pupo, un burattino nelle mani di forze occulte annidate dentro lo Stato.
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"Sono diventato una cosa immensa, sono diventato un re - sussurrava a Lorusso - se mi dicevano un giorno che dovevo arrivare a comandare la storia... sono stato importante". Lui e solo lui, Totò Riina. E, allora, anche la trattativa con uomini dello Stato, di cui parlò per la prima volta ai magistrati il suo pupillo Giovanni Brusca nel 1996, gli stava stretta. Lo disse chiaramente Riina agli agenti della polizia penitenziaria, mentre stava per essere portato nella saletta delle videoconferenze per assistere al processo di Palermo, di cui non ha perso un’udienza: "Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me".
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Quella voglia di esternazioni portò i pubblici ministeri di Palermo a disporre le intercettazioni dei colloqui durante l’ora d’aria, per cogliere ancora meglio i pensieri di Riina, che in carcere parlava e straparlava con il compagno di passeggiate (solo all’aperto, mai nella saletta della socialità), davanti ai giudici invece non apriva bocca. Così, microspie e telecamere hanno fatto emergere la vera natura di Cosa nostra. Che pone ancora tanti interrogativi.
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• ORDINO’ LA MORTE DI FALCONE, BORSELLINO E DALLA CHIESA
Riina ha confermato quanto Giovanni Falcone ripeteva: ufficialmente, Cosa nostra non prende ordini da forze esterne. Ma qualcuno, in Cosa nostra, ha avuto intense relazioni con uomini della società civile, della politica e delle istituzioni. Relazioni ancora avvolte da tanti, troppi misteri. Lo diceva anche Riina.
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Si vantava dell’omicidio del generale Dalla Chiesa: "Quando ho sentito alla televisione, promosso nuovo prefetto di Palermo, distrugge la mafia... prepariamoci gli ho detto, mettiamo tutti i ferramenti a posto, il benvenuto gli dobbiamo dare". Ma in un’altra occasione, Riina precisava che Cosa nostra non c’entra niente con le carte scomparse dalla cassaforte del prefetto.
"Io ho fatto sempre l’uomo d’onore, la persona seria", diceva. E ancora: "Io sono un gran pensante. Io sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto".
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Lo ribadiva anche per Borsellino. Rivendicava la strage nel corso di quelle ultime intercettazioni, ma teneva a precisare: "I servizi segreti gliel’hanno presa l’agenda rossa". E in un altro passaggio ricordava la risposta data al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari durante un interrogatorio in cui gli era stato chiesto di suoi eventuali contatti con i servizi segreti: "Se mi fossi incontrato con questi, non mi chiamerei più Salvatore Riina".
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• IL BOSS MAFIOSO: "BISOGNEREBBE UCCIDERE TUTTI I MAGISTRATI"
Nella "versione di Riina" lui era sempre il boss duro e puro. Ma poi gettava ombre sui suoi compagni. "Mi spiace prendere certi argomenti - diceva dell’amico di sempre, parlando della stagione delle stragi - questo Binnu Provenzano chi è che gli dice di non fare niente? Qualcuno ci deve essere che glielo dice. Quindi tu collabori con questa gente... a fare il carabiniere". Negli ultimi tempi, Riina accusava anche i fedelissimi Madonia di rapporti con uomini dello Stato: "Erano confidenti dei servizi segreti". E pure al pupillo Matteo Messina Denaro dava del "carabiniere".
Riina ha continuato a essere il mafioso di sempre, ha provato fino all’ultimo a dire tutto e il contrario di tutto. Per non far distinguere la verità, quella che cercano ancora i magistrati. "Bisognerebbe ammazzarli tutti", diceva lui. "C’è la dittatura assoluta di questa magistratura". Sono state le sue ultime parole intercettate.
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Adesso, molti dei segreti di Riina li conserva uno dei suoi rampolli, cresciuto accanto a lui durante la stagione delle stragi: il superlatitante Matteo Messina Denaro, ormai diventato un fantasma da quei giorni del 1993.
REAZIONI
ROMA - "Un funerale pubblico non è pensabile". Quella della Conferenza episcopale italiana, arrivata per bocca del portavoce don Ivan Maffeis, è una delle dure reazioni che hanno accompagnato la morte del boss mafioso Totò Riina. "Ricordo la scomunica del Papa ai mafiosi e la condanna inequivocabile della Chiesa. Non possiamo sostituituirci al giudizio di Dio, ma neanche confondere le coscienze". Inviti a continuare la guerra alla criminilità, a non abbassare la guardia, a non dimenticare il dolore provocato dal "capo dei capi". Perché la mafia non è scomparsa con Totò Riina.
"La pietà non ci fa dimenticare il dolore e il sangue versato", ha scritto su Facebook il presidente del Senato Pietro Grasso, magistrato che con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ha combattuto Totò Riina.
"Riina iniziò da Corleone negli anni ’70 una guerra interna alla mafia per conquistarne il dominio assoluto, una sequela di omicidi che hanno insanguinato Palermo e la Sicilia per anni. Una volta diventato il capo - ha ricordato Grasso - la sua furia si è abbattuta sui giornalisti, i vertici della magistratura e della politica siciliana, sulle forze dell’ordine, su inermi cittadini, sulle persone che con coraggio, senso dello Stato e determinazione hanno cercato di fermarne il potere".
"La strategia di attacco allo Stato - ha concluso il presidente del Senato - ha avuto il suo culmine con le stragi del 1992, ed è continuata persino dopo il suo arresto con gli attentati del 1993. Quando fu arrestato, lo Stato assestò un colpo decisivo alla sua organizzazione. In oltre 20 anni di detenzione non hai mai voluto collaborare con la giustizia". Pietà, ma non perdono. E un po’ di rammarico: "Porta con sé molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla".
Sulla stessa lunghezza d’onda Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo ucciso in via d’Amelio il 19 luglio 1992: "Con Riina scompare un’altra cassaforte dopo quella vera scomparsa dopo la sua cattura. Adesso è più difficile che venga fuori la verità sull’assassinio di mio fratello. Se era improbabile - ha spiegato - che un criminale della caratura di Riina potesse pentirsi e parlare, ancora più improbabile è che ci possa essere un pentito di Stato perché Paolo è stato sacrificato sull’altare della scellerata trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato".
Una vicenda, secondo il fratello del magistrato, resa ancor più difficile da riportare alla luce a causa di ’un altro grande ostacolo alla verità’. "Se le intercettazioni di Napolitano fossero state rese pubbliche, avremmo potuto avere le idee più chiare su quegli indicibili accordi di cui scrisse il suo consigliere politico D’Ambrosio, prima che un ’provvidenziale’ infarto lo portasse via". Borsellino si riferisce alle telefonate tra l’allora presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, distrutte per ordine della magistratura dopo che la Consulta aveva accolto il ricorso presentato dallo stesso Napolitano.
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Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni ucciso lungo la A29, all’altezza dello svincolo di Capaci, il 23 maggio 1992, ha commentato la morte del ’capo dei capi’ dicendo di "non gioire per la sua morte, ma di non poterlo perdonare. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato". E a parlare è poi Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto all’attentato: "Meno si parla di lui e meglio è. Cerchiamo di ridimensionare la figura di questo signore. Mettiamolo all’angolo. Non merita altro per quello che è stato e per quello che ha fatto. E se ne vada in silenzio con tutti i suoi segreti".
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"Lo Stato in tutte le occasioni deve marcare la propria differenza e distanza dalla mafia - ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - e non deve sottovalutare il pericolo che ancora oggi la criminalità organizzata rappresenta". Sul trattamento ricevuto da Riina, detenuto in regime di 41 bis, Orlando ha precisato che "Riina ha avuto un’assistenza sanitaria e cure adeguate fino all’ultimo momento e che lo Stato ha garantito quella cifra di civiltà che corrisponde alla sua natura democratica".
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Il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi ha ricordato che "la fine di Riina non coincide con quella della mafia siciliana, che resta un sistema criminale di altissima pericolosità". Bindi ha voluto sottolineare come Cosa Nostra, nella sua versione stragista, sia stata sconfitta prima della morte del boss grazie al duro impegno delle istituzioni e al sacrificio di tanti uomini coraggiosi e giusti".
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"Di fronte alla morte nessun commento", ha detto il presidente della Direzione nazionale antimafia Nino Di Matteo, uno dei magistrati che Riina non ha mai nascosto di voler eliminare. Di Matteo oggi è il magistrato più scortato d’Italia proprio per le minacce ricevute negli ultimi anni, dal carcere, dal boss mafioso di Corleone.
L’INTERVISTA. Cafiero de Raho: "Va colpita la borghesia mafiosa"
Era il dicembre del 2013 quando Riina, parlando in carcere senza sapere di essere intercettato, disse: "Lo faccio finire peggio del giudice Falcone. Lo farei diventare il tonno buono". Ma non era l’unica minaccia a distanza inviata a Di Matteo. In altre conversazioni aeva detto: "Organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non ne parliamo più. Questo Di Matteo non se ne va. Dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo".
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"Il Signore abbia in gloria Toto’ Riina, ma le cose non cambieranno con la sua morte", ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, aggiungendo di sperare che "questa morte possa spingere tutti ad assumersi le proprie responsabilità. Le cose cambieranno se chi amministra lo farà tenendo presente lealtà e legalità".
RITRATTO
In carcere, la prima volta, entra che ha da poco compiuto 18 anni. Un "battesimo" criminale precoce e un’accusa grave: l’omicidio di un coetaneo, durante una rissa, per cui viene condannato a 12 anni. Nato a Corleone il 16 novembre del 1930 da un famiglia di contadini - perderà presto il padre e il fratello, morti mentre cercavano di estrarre della polvere da sparo da una bomba inesplosa -, Totò Riina, morto stanotte nel reparto detenuti del carcere di Parma, fino ad allora ha alle spalle solo qualche furto.
Poca roba, fino all’incontro con Luciano Leggio, all’epoca mafioso rampante che sta tentando di farsi strada. E’ lui, suo compaesano che per un errore di trascrizione di un brigadiere passerà alla storia come Luciano Liggio, a farlo entrare in Cosa nostra. Un metro e 58, che gli vale il soprannome di Totò U Curtu, esce dall’Ucciardone nel 1956, a pena scontata solo in parte, e viene arruolato nel gruppo di fuoco di Leggio che dietro di sé lascia una lunga scia di sangue.
La lotta per il potere di "Lucianeddu" e dei suoi comincia nel 1958 con l’eliminazione di Michele Navarra, medico e boss di Corleone. Leggio ne azzera il clan e ne prende il posto. Totò diventa il suo vice. Nella banda c’è anche un altro compaesano, Bernardo Provenzano. Nel dicembre del 1963 Riina viene fermato da una pattuglia di carabinieri in provincia di Agrigento: ha una carta di identità rubata e una pistola. Torna all’Ucciardone per uscirne, dopo un’assoluzione per insufficienza di prove nel 1969. Mandato fuori dalla Sicilia al soggiorno obbligato, non lascerà mai l’Isola scegliendo una latitanza durata oltre 20 anni. Da ricercato inizia la sistematica eliminazione dei nemici: nel 1969, con Provenzano e altri uomini d’onore, uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti in quella che per le cronache sarà la strage di viale Lazio. Due anni dopo è lui a sparare contro il procuratore di Palermo Pietro Scaglione. L’ascesa in Cosa nostra, ottenuta col sangue e la violenza - sarebbero oltre 100 gli omicidi in cui è coinvolto e 26 gli ergastoli a cui è stato condannato - è inarrestabile. E va di pari passo con i primi delitti politici: l’ex segretario provinciale della dc Michele Reina e il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Dopo la cattura di Leggio, Riina prende il suo posto nel triumvirato mafioso assieme a Stefano Bontate e Tano Badalamenti. Farà poi allontanare quest’ultimo, accusandolo falsamente dell’omicidio di un capomafia nisseno.
Ma è negli anni 80 che il ruolo suo e dei suoi, i viddani, i villani di Corleone che hanno sfidato la mafia della città, diventa indiscusso. Soldi a fiumi con la droga, gli appalti e la speculazione edilizia. E una conquista del potere a colpi di omicidi eclatanti e lupare bianche. E’ la seconda guerra di mafia. Il 23 aprile 1981 cade Stefano Bontande, "il principe di Villagrazia", il boss che vestiva in doppiopetto, frequentava i salotti buoni della città e controllava i traffici della Cosa nostra palermitana. Massacrato nel suo regno e nel giorno del suo compleanno. Diciotto giorni dopo, tocca al suo alleato, Totuccio Inzerillo, poi al figlio e al fratello: i parenti superstiti fuggono negli Stati Uniti e hanno salva la vita a patto di non tornare più in Sicilia. In poche settimane restano a terra decine di cadaveri.
Riina la belva , come lo chiama il suo referente politico Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo del sacco edilizio, è feroce e spietato. Condannato in contumacia all’ergastolo durante il "maxiprocesso", viene inchiodato dalle rivelazioni dei primo pentito di rango, Tommaso Buscetta. Totò "u curto" si vendica facendogli uccidere undici parenti. Quando il maxi diventa definitivo e cominciano a fioccare gli ergastoli per gli uomini d’onore, il padrino dichiara guerra allo Stato. Una sorta di redde rationem con la condanna dei nemici storici come i giudici Falcone e Borsellino, a cui si doveva il maxiprocesso, e di chi aveva tradito. La lista di chi andava eliminato era lunga e contava anche i politici che, secondo il boss, non avevano rispettato i patti.
E’ la stagione delle stragi che il capo dei capi vuole nonostante non tutti in Cosa nostra siano d’accordo. Il 12 marzo muore Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al boss restano però pochi mesi di libertà: il 15 gennaio del 1993 i carabinieri del Ros lo arrestano dopo 24 anni di latitanza. La moglie, Ninetta Bagarella che ha trascorso con lui tutta la vita, torna a Corleone con i quattro figli, Lucia, Concetta, Giovanni e Giuseppe Salvatore, tutti nati in una delle migliori cliniche private di Palermo.
Gli ultimi periodi della latitanza la famiglia li trascorre in una villa degli imprenditori mafiosi Sansone, a due passi dalla circonvallazione. I carabinieri lo ammanettano poco lontano da casa: un arresto il suo su cui restano molti punti oscuri. La versione ufficiale lo vuole "consegnato" da un suo ex fedelissimo, Baldassare Di Maggio, il pentito che poi avrebbe raccontato del bacio tra Riina e Andreotti. Ma sulla cattura del capo dei capi gravano ombre pesanti: a tratteggiarle sono gli stessi magistrati che dal 2012 lo processano per la cosiddetta trattativa Stato-mafia in cui il boss avrebbe avuto, almeno inizialmente un ruolo. Sarebbe stato il compaesano, l’amico di una vita, Bernardo Provenzano, più cauto e, dicono i pentiti, contrario frontale all’attacco allo Stato, a venderlo ai carabinieri barattando in cambio l’impunità.
Con la morte del padrino restano senza risposte molte domande: sui rapporti mafia e politica, sulla stagione delle stragi, sui cosiddetti delitti eccellenti, sulle trame che avrebbero visto Cosa nostra a braccetto con poteri occulti in una comune strategia della tensione. Riina non ha mai mostrato alcun segno di redenzione. Fino alla fine quando, al processo trattativa, citato dalla Procura è rimasto in silenzio.
SUI SOCIAL CONDOGLIANZE
ROMA - A poche ore dalla notizia della morte di Totò Riina proliferano sui social network post e pagine di commiato al capo dei capi. Per centinaia di utenti non se ne è andata "la belva" che voleva uccidere i parenti dei pentiti, compresi donne e bambini. Non è morto lo stragista condannato per Capaci, via D’Amelio, viale Lazio, Via dei Georgofili, per la strage di Pizzolungo.
IL RITRATTO Totò ’u curto’, il boss che fece la guerra allo Stato
Per molti, oggi se ne è andato "un grande uomo. Quando c’era lui i soldi in Italia giravano, oggi gira fame perchè la politica è la vera mafia". Non è morto Totò ‘u curtu, il boss che augurava ai magistrati di fare la fine del tonno: “Oggi muore il padre di tutto e tutti...R.I.P. Totò Riina...Non nascerà mai un altro come te…".
Se ne va un uomo che nell’immaginario di qualcuno è stato lo Stato. Quando c’era lui in Sicilia la crisi economica e sociale era lontana, oggi è peggio subire la malapolitica che le ritorsioni mafiose. E dei morti ammazzati poco importa, anche i bambini. A chi si stupisce rispondono "ma il bimbo a chi era figlio? Figlio di qualcuno che stava succhiando la vita di tutta la sicilia? Meditiamo un po’ anche"
Nonostane molti post provengano dalla Sicilia, i "riposa in pace" per Riina arrivano da tutta Italia, non hanno una connotazione geografica ben delineata. Se ne trovano diversi anche dall’estero, da Malta, dalla Germania, dalla Francia, dalla Romania. Un "sentite condoglianze alla famiglia Riina" arriva da Rio de Janeiro.
Un post su Facebook in inglese che rende omaggio a Totò Riina
CondividiSono tutti ragazzi, che in comune non hanno la provenienza ma l’età e il sistema di valori, influenzato dal fascino per la mafia e per i valori della criminalità. Per chi si ispira a questi valori, se ne è andato un pezzo di storia: “Rip grande zio Totò Riina la vera storia della mafia".
Da questi ragazzi Totò Riina è considerato un grande a dispetto di chi lo ha combattuto, a dispetto delle centinaia di famiglie che ha distrutto nel corso dei decenni, a dispetto dello Stato italiano. Qualcuno sostiene che "era meglio che al suo posto morivano i politici che lo hanno fatto arrestare", altri giustificano le sue azioni con il fatto che è vero, ha ammazzato uomini di Stato, donne e bambini, però all’epoca in Sicilia si stava meglio e c’era lavoro.
Morto il boss Riina, Bolzoni: "L’uomo che ha trasformato Cosa nostra in Cosa sua" Condividi
Un altro filo conduttore che lega tantissime di queste condivisioni social è il sito di provenienza della notizia, Sky24ore, che nulla ha a che spartire con la tv satellitare, ma che rilancia bufale sugli argomenti di attualità appositamente per far irritare la pancia del Paese. Nella sua homepage possiamo leggere notizie come "Papa Francesco Senza Freni: ’Chi Non Accoglie I Migranti Brucerà All’Inferno!", "Palermo elezioni regionali: trovate 500 mila schede precompilate con il nome di un candidato. Scandalo!" e altri classici della disinformazione made in Italy.
La notizia su Riina è stata pubblicata ieri alle 19.00, quando il boss era ancora in coma farmacologico dopo le due operazioni subìte. Nelle pagine Facebook che hanno rilanciato la notizia, ore prima della morte, già fioccavano condivisioni e commenti che glorificavano l’operato di Riina in terra, augurandogli di riposare in pace. Oggi, in Italia, nel 2017.
GLI ANNI IN CARCERE
La "belva", come lo chiamavano, ha trascorso in gabbia poco più di novemila giorni. Isolato dal mondo per non permettergli di influire ancora sulle attività di Cosa Nostra. Ma non solo a quello scopo: nei primi anni di detenzione di Totò Riina c’era anche l’incubo di un nuovo caffè al cianuro, come quello che aveva stroncato in epoche diverse Gaspare Pisciotta e Michele Sindona.
Siamo a Padova, tra il 1993 e il 1994. Attorno al capo dei capi, arrestato da pochi mesi, c’è una pressione enorme. Si spera ancora che dalla sua bocca possa uscire qualche parola che permetta di lanciare la scalata al livello più alto, quello dei mandanti politici delle stragi. Speranza vana, rivelerà la storia successiva, ma in quel momento l’uomo che conosce i segreti più abominevoli del Paese è ancora un potenziale obiettivo sensibile.
Nella prigione veneta viene rinchiuso in una cella della sezione di massima sicurezza. Si trova in un mini reparto isolato, senza vicini di stanza. E a vigilare su di lui sono agenti di un nucleo selezionato di polizia penitenziaria. Ufficialmente nessuno sa della sua presenza, anche se in un istituto di reclusione "radio carcere" si diffonde presto. E gli interventi del boss nell’aula bunker di Mestre sono un’indicazione chiara, per gli addetti ai lavori: Padova è la "buca" di riferimento per i casi più delicati, in quell’area d’Italia.
Sono pochissimi però a entrare in contatto con Riina. "Tutto funzionava con il meccanismo delle scatole cinesi, nessuno conosceva tutti gli ordini sulle procedure di sicurezza, ma solo la porzione che lo riguardava", racconta una fonte. E proprio sul cibo c’erano le restrizioni più forti. Niente servizio di mensa: il boss si doveva cucinare da solo in cella. Tanto che un funzionario di fiducia doveva andare all’esterno a fare la spesa: ogni giorno in un supermercato diverso, in gran segreto e senza scorta. Nessuno, in quel modo, avrebbe potuto avvelenarlo. "Consumava il pasto da solo, sotto lo sguardo degli agenti e in silenzio, come sempre".
Raccontano che chiedesse solo di avere pane morbido. Il resto era in linea col personaggio: "Aveva 64 anni ma sembrava un anziano. Tanto dimesso da far pensare che in carcere al 41bis non avrebbe resistito a lungo". Sono passati invece 24 anni: è arrivato l’isolamento all’Asinara, poi Ascoli Piceno e il carcere milanese di Opera. Ma a quel punto si era già capito che Riina non avrebbe parlato.