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 2017  novembre 17 Venerdì calendario

Tennis, la lezione di Piatti: «Per uno Zverev italiano imitate la sua famiglia»

Per provare a cancellare anni di desolazione, in cui l’unica alternativa al guasto tecnico sistematico sono stati alcuni fuochi isolati, egregie partite qua e là, Volandri e Seppi che battono Federer a distanza di anni l’uno dall’altro, o Fognini che batte Nadal, il tennis maschile italiano può addirittura aggrapparsi alla chioma finta di Agassi, parola di Riccardo Piatti, 59 anni, il più autorevole dei nostri coach: «Il tennis è uno sport individuale, quindi deve anche rafforzare l’Io del giocatore. Se un tennista è pelato ma crede di essere biondo e con i capelli lunghi, bisogna assecondarlo». Agassi lo fece di nascosto da tutti ad eccezione della moglie Brooke Shields e del fratello. Ma il concetto è chiaro: ogni strada può essere quella giusta, dipende però da come la si imbocca: «Di tennis in Italia ce n’è quanto vogliamo, tanti tornei e anche tanti discreti giocatori junior. Ma le accademie non bastano, né sono sufficienti i buoni insegnamenti. Oggi conta più l’investimento dell’apprendimento». Piatti lo sa, ha sperimentato, ha “creato” Ljubicic, ha plasmato il bimbo Djokovic, ha inventato Gasquet e poi si è dedicato a Raonic, con il quale ha concluso il rapporto tre giorni fa (senza contare gli italiani fra cui Caratti e Furlan): «Non c’è un segreto, ce ne sono tanti, decisiva è la combinazione dei fattori. Forse non siamo stati abbastanza attenti noi, forse alcuni giovani non sono stati gestiti nel modo appropriato. Ma al di là delle apparenze l’Italia rimane un grande bacino di tennisti». C’è anche il rovescio della medaglia: «Con tutti i tornei disseminati per il paese spesso i giovani pensano di poter crescere in classifica senza sbattersi nel cercare di viaggiare per il mondo, stare fuori due mesi in Oriente». E allora torniamo alla costruzione pezzo per pezzo dello “junior”: «Bisogna fargli subito prendere coscienza del valore che possiede, se ne possiede, e farlo sentire al centro della sua evoluzione tecnica, anagrafica e professionale. Deve girare, rischiare, deve mollare gli ormeggi presto e staccarsi ancor prima da ciò che lo protegge. Poi gli va costruita intorno una squadra. Il tennis di oggi è professionismo anche fra gli junior». Già, il tennis di alto livello ormai è diventato uno sport di squadra: «L’esempio è Alexander Zverev. Guardate come è stato messo in piedi il suo team dal padre e dalla madre, che sono sempre i suoi allenatori di riferimento. Hanno fatto una specie di oculato “tennis mercato”, hanno preso il preparatore di Murray, (Jez Green, in pratica rubandolo a Andy, ndr) poi un fisioterapista (Hugo Gravil ndr), infine la ciliegina sulla torta: Juan Carlos Ferrero». In Italia si dovrebbero insomma creare team per quei ragazzi che a 18 anni mostrano evidenti segni di affidabilità e di talento superiore: «Certo sono impegni costosi, non tutti possono permetterselo, io quando voglio prendere un ragazzo prima parlo con i genitori e verifico la loro motivazione. In ogni caso la federazione ha capito che è giunto il momento di sostenere le iniziative più promettenti. Fermo restando che parliamo sempre di progetti a rischio, di scommesse». L’alternativa è questo grigiore: «Il punto che è facile sbagliare i dosaggi e perdersi un tennista nel cruciale passaggio dai 18 ai 20. Il “Next Gen” è una vetrina, ma negli anni futuri il vero obiettivo per il tennis italiano deve essere il Masters di Londra». Magari fosse.