La Stampa, 17 novembre 2017
Genova, l’istituto affonda rispecchiando la crisi di una città
La mesta parabola di Banca Carige è lo specchio di una città, Genova, ormai avvitata in una crisi senza fine. Una città che negli ultimi dieci anni ha perso qualcosa come 150 mila abitanti, ha visto chiudere una dopo l’altra le grandi industrie a Partecipazione statale, decine e decine di aziende dell’indotto e centinaia di esercizi commerciali, si era illusa di poter conservare l’antica grandeur ormai polverosa e piena di toppe ospitando il settimo gruppo bancario italiano. Una rana dalla bocca larga cresciuta a dismisura spinta dall’ego truffaldino dell’allora padre padrone Giovanni Berneschi.
Sgonfiatasi come un sufflè malcotto sotto i colpi della magistratura e di una pur tardiva azione di Bankitalia, la banca dei genovesi e dei liguri come pomposamente la definivano i collusi politici locali e una classe imprenditoriale inadeguata quando non anch’essa collusa, Carige ha tentato senza successo di risollevarsi. Con un peccato originale che ha finito travolgere anche chi, come la famiglia Malacalza, ha buttato nel pozzo senza fondo 250 milioni di mezzi freschi.
Invece di intervenire in maniera radicale, di tagliare definitivamente i ponti con il passato, di fare subito una chiara e netta opera di pulizia, si è preferito agire “alla genovese”. Una dottrina stantia e gattopardesca, antesignana del consociativismo, che prevede di aggiustare, blandire, coinvolgere e cooptare. Dove non esistono confini fra maggioranza e opposizione, padroni e sindacati. Una melassa dove tutto si smussa e si aggiusta, mentre i problemi si nascondono sotto il tappeto.
In 5 anni Carige ha bruciato 4 miliardi di capitalizzazione. Mercoledì, ultimo giorno di quotazione, l’istituto valeva appena 124 milioni, 14 centesimi ad azione (11 euro a inizio 2013). Dopo il siluramento e l’arresto di Berneschi, la banca ha visto avvicendarsi 3 amministratori delegati in meno di 4 anni. Senza riuscire a varare un vero piano di rilancio.
Ora a Genova è tutto un coro di lamentose preoccupazioni. Ma forse è troppo tardi. La Bce non farà sconti. Cinquantaseimila piccoli azionisti rischiano di restare con un pugno di mosche. Così come migliaia di obbligazionisti. Oltre 5 mila dipendenti rischiano il posto. E troppo pochi hanno pagato il conto di anni e anni di malaffare e malagestione.