la Repubblica, 17 novembre 2017
Fischio Finale
Questa è una storia che comincia e finisce dentro il buio. Il buio di un campetto di periferia dove vengono addestrati i calciatori bambini, il buio dello stadio di San Siro dove gli azzurri sono stati umiliati. Ognuno ha la sua notte, e tutte le notti sono legate tra loro. Il rumore sordo di una scarpa da calcio quando colpisce il pallone è lo stesso. I bambini gettano a terra le borse e si rincorrono prima che l’istruttore li chiami sul prato lucido di freddo, i grandi si guardano smarriti dopo aver perso un mondiale. Occhi che cercano, e chiedono. Occhi senza risposta.
Le sagome dei bambini scattano in controluce, i riflettori sono accesi sui campi del Vanchiglia, alle porte di Torino, e sono le sette di sera. La basilica di Superga là in alto sembra un presepe illuminato. L’aria è frantumata dai fischietti e dalle voci, una mamma legge un libro seduta sulla tribunetta di ferro dove i papà parlano di Ventura e Ancelotti. I bambini, loro giocano soltanto. Fa freddo e tutto corre veloce, le ombre e le parole degli allenatori. C’era un tempo in cui i bambini, tutti, giocavano per strada, ai giardini, ai campetti dietro la ferrovia, all’oratorio aperto da mattina a sera. Si addestravano con gli spigoli dei marciapiedi, dribblavano i parafanghi della auto parcheggiate, usavano i portoni come porte, toglievano con la punta della scarpa la palla incastrata sotto le marmitte. Il giorno era infinito. Il gioco del calcio, inevitabile. «Sì, ma prima devi studiare» dicevano le mamme, e intanto i bambini sognavano il mitico “provino”, la possibilità di essere notati da un osservatore. Oggi, la mamma e il papà devono pagare una scuola calcio. Sono diventati clienti. È cambiato il modello, e un mondo.
Anche gli azzurri sono stati bambini così. Soltanto i più vecchi tra loro, per esempio Gigi Buffon, avranno conosciuto il gioco infinito della strada. Nei loro volti prima della disfatta c’è anche il segno di quel passato, ognuno porta dentro tutto quello che ha fatto per arrivare dov’è. Le sere quando cominciava a salire la nebbia dal fiume, proprio come adesso che l’allenatore dice ai bambini del Vanchiglia di alzare la testa e non guardarsi le scarpe mentre toccano la palla. Hanno 5 anni, questi rapidi scattanti animaletti che osservano l’istruttore mentre di colpo impugna una pettorina di colore diverso, gialla, rosa, arancione. A ogni colore corrisponde un movimento tecnico che dovranno fare gli allievi: è un metodo didattico spagnolo. Un anno di scuola calcio costa 250 euro, più 190 per il “kit” di allenamento: borsa, tuta, maglia, berretto, k-way, calzoncini, calzettoni. Gli istruttori sono qualificati, hanno studiato, ci sono anche la psicologa, il fisioterapista, il medico e i preparatori atletici. Come per i grandi, uguale. E allora, perché tutta questa notte?
Perché, allora, De Rossi dice «ma se bisogna vincere, mica pareggiare, perché devo entrare io?» dentro l’impietosa telecamera che svela lo smarrimento dell’Italia? Perché Gian Piero Ventura cammina avanti e indietro senza soluzione? Forse perché le ha esaurite tutte? E perché gli azzurri sembrano avere smarrito la memoria elementare dei gesti imparati un giorno al campetto? Cosa li attraversa, quale paura?
Siamo diventati un paese che non gioca più a pallone, anzi che gioca solo a pagamento. Non se ne esce. Anche in Francia e in Germania, veramente, dove però un più avanzato processo di integrazione porta anche i turchi e i polacchi in nazionale. Da noi i cortili ormai sono chiusi. I campetti sono abbandonati, pericolosi. Se giochi in strada ti investono. In Italia si è discusso a lungo se un ragazzino delle medie possa tornare a casa da solo, dopo la scuola. In quel tempo di campetti e spigoli di marciapiedi, se mamma e papà ti aspettavano fuori dai cancelli venivi preso in giro per giorni. Un altro mondo. E forse si è perso del tempo prezioso per conquistare questo nostro tempo.
Marco Spadafora è il responsabile della scuola calcio del Vanchiglia. Tra i diritti della carta dei bambini, scritta dalla Federcalcio, c’è anche quello di non essere un campione. «Il calcio si cambia partendo dal basso, allenando gli allenatori. E i genitori. Abbiamo perso la strada e quella non la recuperi. Oggi i bambini non sanno neanche più camminare, appoggiano male i piedi, non sanno saltare. Sono creature da divano e videogioco, hanno dimenticato il coordinamento motorio e così perdono pezzi di vita. È vero, oggi per giocare si paga ma vedete un altro modo? Noi offriamo un servizio completo, abbiamo studiato per essere qui e combattiamo l’enorme abbandono dei sedicenni che smettono di giocare, cerchiamo di non incoraggiare i sogni fuori posto». Tra una notte e l’altra, quella dei bambini e quella dei campioni, ci sono troppe assenze. «La Figc ha creato i centri federali, ottimo, anche se in Piemonte ne abbiamo appena due. Poi, però, nessuno viene a vedere i ragazzini, dobbiamo segnalarli noi. La Federcalcio sul territorio quasi non c’è. E poi la scuola: dov’è? Alle elementari l’ora di ginnastica continua a farla la maestra, non basta. Sono spariti i Giochi della gioventù, tra un po’ faremo sparire anche la gioventù».
È scomparso l’istinto. Guardateli, gli azzurri a San Siro. Smarriti, paralizzati. Come se non servissero a nulla le 8 mila scuole calcio italiane alle loro spalle, come se non esistessero i 450 mila bambini iscritti, i 70 mila allenatori, le 12 mila società dilettantistiche. Solo un bambino su 5 mila esordirà in A. Questi undici in campo giocano a nome di tutti gli altri, sono il meglio che abbiamo: sono, improvvisamente, troppo poco, quasi niente. Per la prima volta dopo sessant’anni non andiamo al Mondiale. È la crisi enorme di un sistema, non solo di un commissario tecnico e di un presidente federale. Il calcio comincia a finire molto prima. «Siamo stati sfortunati», dirà Tavecchio a Ventura, a disastro compiuto. Naturalmente una sciocchezza, perché siamo stati non sfortunati, ma quello che potevamo essere. A Buffon toccherà piangere, realizzando il senso di una fine, ed è forse il momento più intenso dell’intera notte ma non il più buio.
Il grande campione, la leggenda all’addio che scioglie così l’amarezza, che rende liquida una tristezza senza argini. Molto umano, commovente. Molto definitivo. In quel momento, Gian Piero Ventura scappa come un ladro nello spogliatoio, lo stesso che il suo collega Janne Andersson pulirà con le proprie mani, raccogliendo cartaccia e bicchieri di plastica. Ogni gesto dice chi siamo e da dove veniamo. Noi veniamo dal buio, e lì si resta.
Il 9 luglio 2006 Fabio Cannavaro solleva al cielo di Berlino la Coppa del mondo, la quarta per l’Italia, la Francia è battuta ai rigori. Il 13 novembre 2017, quattromila e 175 giorni dopo, la Nazionale che si chiama nello stesso modo – Italia – non batte la Svezia a San Siro e perde l’ultimo treno per i Mondiali in Russia. C’è un paese che oggi si domanda come sia stato possibile. Si può credere che sia semplicemente mancato un gol. Oppure si può provare a ricostruire cos’è successo in questi undici anni, lentamente, un po’ per volta.
Il trionfo in Germania arriva in un momento funesto per il calcio italiano, travolto dallo scandalo Calciopoli. La Federcalcio è nelle mani di un commissario: fino al 21 settembre del 2006 è Guido Rossi, poi Luca Pancalli. Nel nuovo campionato di serie A non gioca la Juventus, retrocessa a tavolino: i campioni del mondo Buffon, Del Piero e Camoranesi hanno accettato di restare in B. Non c’è il Napoli, la terza città d’Italia costretta a ripartire dalla serie C1 con una nuova società, dopo un crac. Non c’è nemmeno il Genoa, retrocesso d’ufficio perché il suo presidente è stato ritenuto colpevole, un anno prima, di aver tentato di aggiustare una partita con il Venezia. Il clima si fa ancora più cupo il 2 febbraio del 2007, giorno del derby Catania-Palermo. Si gioca di venerdì, per evitare di sovrapporsi alla festa di Sant’Agata. Fuori dallo stadio gli scontri lasciano feriti fra civili e forze dell’ordine. Nove tifosi vengono arrestati, quattro sono minorenni. Filippo Raciti ha 40 anni. È l’ispettore capo del X Reparto Mobile di Catania. Lo hanno colpito alla testa, muore all’ospedale ‘Garibaldi’. La festa di Berlino è già un ricordo lontano, macchiato di sangue.
Due mesi dopo, Giancarlo Abete sale al vertice della Figc con un plebiscito. Ha 57 anni, è in Federcalcio da venti, è stato parlamentare nella Democrazia Cristiana per tre legislature e capo delegazione al Mondiale vinto. Due settimane dopo, farà la sua prima uscita insieme alla ministra dello sport Giovanna Melandri a Cardiff, dove l’Uefa deve assegnare l’organizzazione degli Europei 2012.
Ecco. Volendo datare l’inizio della fine, si può partire da qui, dal giorno in cui l’Italia campione del mondo in carica viene presa a calci. Il Governo ha puntato tutto sull’organizzazione degli Europei per risollevare un movimento fiaccato dalla questione morale e dalla fine del Totocalcio, un mondo che mostra i primi segni del crollo che verrà. Il torneo, e gli investimenti correlati, sono l’occasione per costruire i nuovi stadi e ammodernare un sistema sull’orlo del collasso. Ma il progetto fallisce. Come sia potuto succedere non è mai stato del tutto chiaro. Alla vigilia, il dossier azzurro è considerato il favorito. In finale, perde contro una strana coppia, Ucraina e Polonia, 4 voti contro 8. Secondo Spyros Marangos, ex tesoriere della federazione di Cipro, quattro membri dell’esecutivo Uefa si sono lasciati corrompere da una tangente da nove milioni di euro, tre dei quali consegnati dentro un pupazzo di peluche. A quelle accuse Michel Platini, non ancora travolto dallo scandalo Blatter-Fifa e dunque potentissimo capo dell’Uefa, risponde annunciando querele. «È stata una sberla che Platini ha voluto dare all’Italia, nient’altro», ne è certo Antonio Matarrese, allora presidente della Lega Calcio, un post democristiano pure lui. Qualcuno mette in relazione la decisione con lo scandalo di Calciopoli, che già aveva spinto Blatter a voltare le spalle alla Nazionale durante la premiazione sul palco di Berlino. Qualcun altro con la morte di Raciti e l’insicurezza nei nostri stadi. Alla fine – corruzione a parte – l’ipotesi più probabile sulla mancata assegnazione dell’Europeo viene avanzata da Dino Zoff: «Siamo mancati sui dossier».
La sconfitta fa scalpore. Il primo a capire la portata del disastro e le sue conseguenze a lungo termine, arrivate dritte fino alla partita di San Siro, è il premier Romano Prodi: «Ho appreso la notizia via sms. Ho sussultato e mi è molto dispiaciuto. Ci contavo». Abete spiega che si è trattato di una decisione di politica sportiva. Melandri nega di aver pianto: si era solo passata le mani sul viso, dice. Era giusto piangere, invece: era appena passato il penultimo treno per rilanciare il calcio. ( Ne passerà un altro, l’ultimo, quattro anni dopo, quando l’Italia ci riprova per gli Europei 2016. Va finanche peggio: scartata al primo turno contro Turchia e Francia).
La caduta libera
Perduti gli Europei del 2012 in circostanze nebulose, qualcosa va fatto. Il punto è cosa. Portato in palmo di mano da Antonio Matarrese, l’anno dopo, è il 2008, si affaccia sulla scena del calcio italiano un nuovo soggetto, Infront Sports & Media, una società di marketing e comunicazione sportiva molto aggressiva e dotata di manager competenti, uno tra tutti Marco Bogarelli, e presieduta da Philippe Blatter, figlio di Sepp, non un omonimo: proprio lui, il boss della Fifa. Infront entra come advisor per la Lega nella decisiva questione dei diritti tv. Dovrebbe consigliare i manager del calcio su un mercato difficile, in continua evoluzione. Ma appena messo piede in assemblea, Bogarelli scopre di essere precipitato in un mondo ideale per un’azienda come la sua. Un mondo a “competenza zero”. I presidenti di A sono soggetti rissosi e quasi mai preparati. E la loro assemblea è uno degli organismi peggio regolamentati nella storia del diritto privato italiano. Lui invece sa tutto e conosce tutto. «La novità della nostra proposta – spiega all’assemblea – sta nel fatto che Infront non vuole limitarsi a essere un consulente appiattito nell’analisi della situazione contingente e il disbrigo delle procedure competitive». Vuole essere di più, un partner affidabile, un socio generoso. Così firma un contratto con una clausola che suona come musica dolcissima alle orecchie dei presidenti: se la Lega non realizzerà il guadagno che l’assemblea si è prefissata dai diritti tv, i soldi li metterà direttamente Infront.
I presidenti gli danno carta bianca. Pensano di aver fatto bingo. Invece stanno mandando il calcio italiano allo sfascio. In pochi mesi, il controllo dell’advisor sul sistema è totale, va ben oltre i confini della Lega, fino alla Federazione. Ma la missione di una società privata come Infront è guadagnare soldi facendone guadagnare ai suoi clienti. Il corretto funzionamento del calcio italiano non è fra le sue urgenze. E così il calcio lentamente tracolla. Sotto tutti i punti di vista. Ogni problema di gestione economica viene girato a Bogarelli, che in un modo o nell’altro lo risolve. Così i vertici del calcio possono dedicarsi alla conservazione delle singole posizioni di potere.
La presidenza Abete resiste a tutto, compresa l’inchiesta penale avviata nel 2011 dalla procura di Cremona che dimostra come l’intero movimento sia contaminato dal morbo del calcioscommesse. Sul registro degli indagati finiscono centinaia di calciatori dalla Serie C alla A, perfino della Nazionale ( nel maggio 2012 i carabinieri perquisiscono Coverciano). Molti vengono arrestati, quasi tutti sono condannati dalla giustizia sportiva e da quella penale. In Figc, nessuno si assume la responsabilità politica dello scandalo. Nemmeno al Coni, che sulla Federazione avrebbe dovuto vigilare. Non era funzionale disturbare il manovratore.
Il divario con l’Europa
Sul piano sportivo le cose non vanno affatto meglio. I postumi della sbornia mondiale stanno passando, in pochi hanno colto che quella vittoria, celebrata la festa, è diventata un’insidia. È un boomerang d’oro. Luccica, ma comunque torna indietro. E sfascia quel che trova lungo il suo cammino. Lascerà solo macerie. Le stesse che in fondo c’erano due anni prima e che il rigore di Grosso contro la Francia aveva nascosto sotto il tappeto. Con la coppa del mondo in Italia, Calciopoli era diventato un incidente da mettere tra parentesi. Le riforme da apportare con urgenza al sistema che l’aveva prodotto, una noiosa chiacchiera da convegno. La sera in cui il capitano Fabio Cannavaro mostrava la Coppa come un’ostia sull’altare alla folla della sua città, Napoli, in piazza Plebiscito, i tribunali del calcio stavano assestando una mazzata senza precedenti alla Juventus, la più nobile delle squadre italiane. Cannavaro, che della Juve in quel momento è un simbolo, lascia la piazza asserragliato dentro un’automobile, i finestrini serrati, scuotendo la testa: «Non dico niente, non parlo». Le due anime di un movimento in crisi dentro una sola immagine.
Gli altri paesi del mondo non stanno fermi ad aspettare. Hanno sconfitte da cui ripartire, sanno come fare e ripartono. Individuano i loro mali, li affrontano. La Spagna ha in quel momento una nazionale che da otto mondiali non è mai arrivata nemmeno in semifinale. Ma ha ricominciato da zero affidandosi a un madrileno politicamente scorretto, dalla lingua lunga, sfrontato al punto da dire che «se Gattuso è fondamentale allora io sono un prete». Si chiama Luis Aragonés, e farà molto di più che inventare una squadra. Inventa uno stile. Il tiki-taka, la fitta rete di passaggi che strema gli avversari, li obbliga a rincorrere il pallone senza vederlo mai, li frustra e li sfianca. Una corrida sul campo di calcio. La Spagna seleziona giocatori tecnici. Dominerà gli anni successivi, incantando.
La Germania vive come uno smacco il terzo posto al Mondiale in casa. Impone ai club professionistici di dotarsi di una Academy e strutture nuove. Il regolamento è così puntiglioso da prevedere pure il numero di riflettori da montare intorno al campo. Nascono così 121 centri regionali aperti a ragazzi dai 10 anni in su. Ogni bambino deve averne uno nel raggio di 25 chilometri da casa. È un modello copiato dai centri di formazione che esistono già da tempo in Francia, come quello di Clairefontaine, gestito direttamente dalla federazione, dove i migliori calciatorini residenti nella zona di Parigi restano per due anni ad allenarsi su tecnica, tattica, educazione. Allo stesso modo, seicentomila ragazzi tedeschi sono tenuti sotto osservazione da 1.300 tecnici. La federazione spende 90 milioni l’anno nel “Programma di promozione del talento”. Joerg Daniel, l’uomo che lo avvia, dichiara: «Se qualche ragazzo di qualità dovesse nascere in un villaggio sperduto fra le montagne, noi lo troveremo». In realtà ne trovano più d’uno. Loro. Mentre il calcio italiano si sta gloriando del proprio dna, nell’idea che tutto cominci dalla difesa e dalla distruzione del gioco altrui, e celebra il premio del Pallone d’oro a uno stopper, i tedeschi mettono in discussione la propria identità calcistica. Si evolvono. C’è un diktat nelle Accademie: meno corsa e più pallone. Fra i 10 e i 13 anni, la priorità non è più la ricerca del fisico, ma la libertà in campo. Nei vivai compare una macchina che si chiama Footbonaut, spara palloni dagli angoli, i bambini devono indirizzarli dopo uno stop in uno dei 64 quadranti che di volta in volta si illuminano. In Italia, ancora oggi, la selezione si fa invece sui chili, sui centimetri, sul mese di nascita dei ragazzini. Quelli del primo semestre hanno una corsia preferenziale, fanno la differenza a livello fisico nella loro categoria, fanno vincere le partite a livello giovanile, portano vanagloria a chi li allena. Progetti a lunga distanza: nessuno.
Il declino della Nazionale
L’assenza di programmazione resiste anche ai singhiozzi della Nazionale. Nel 2006, dopo l’addio di Lippi, arriva Roberto Donadoni. Ha 45 anni, è un tecnico emergente, viene dalla celebrata scuola di Sacchi, vince il girone di qualificazione verso l’Europeo 2008 dove esce ai quarti di finale, ai rigori, contro la Spagna. Nessuno ha ancora la piena consapevolezza del valore dell’avversario, anzi, quel risultato viene giudicato un’onta da cancellare. Nove anni dopo, Ventura dirà: «Con la Spagna, sapevamo tutti di giocare per il secondo posto».
La convinzione della Figc è che sia sufficiente il ritorno di Lippi per risolvere i problemi. Ma al Mondiale in Sudafrica, funestato dai problemi alla schiena di Buffon, l’Italia esce al primo turno senza vincere una partita, eliminata dalla Slovacchia dopo aver pareggiato contro il Paraguay e la Nuova Zelanda. «Se finisce come nel 2006 poi non salite sul carro», avvisa il tecnico viareggino alla vigilia della partita decisiva facendo leva sul trauma irrisolto del giornalismo sportivo italiano, quelle critiche del 1982 alla Nazionale rimangiate strada facendo. Invece il carro resta vuoto. Il ct paga a caro prezzo la riconoscenza ai campioni di Berlino e lascia una squadra vecchia, da rifare. È lo stesso errore commesso da Bearzot in Messico nell’86. Perché in campo c’è l’identica costante presente nei palazzi: il passato che non passa mai, l’incapacità di guardare avanti.
Come sempre, i nemici dello sviluppo vengono individuati negli stranieri. Nel 1958 la colpa della mancata qualificazione era stata attribuita agli oriundi, i sudamericani a cui l’Italia aveva comprato un passaporto per vestirli d’azzurro. Nel 1966 la sconfitta con la Corea del Nord aveva avuto come appendice la chiusura delle frontiere, un’autarchia durata fino al 1980. Scavallato il Duemila, i discorsi non cambiano. Ma stavolta non ci sono frontiere da poter chiudere. È cambiato il mondo. È cambiato il calcio. Il mercato è diventato globale. L’Ue impone la libera circolazione dei lavoratori. Le Nazionali sono multiculturali: in Francia nel ’98 hanno vinto un titolo con giocatori nati in ex colonie, o figli di immigrati. Il calcio italiano non sa interpretare il cambiamento. Prospera anzi un razzismo aperto negli stadi, e strisciante fuori.
La complessità di questa nuova società è una faccenda con cui altre federazioni provano a fare i conti. La boxe e l’atletica sono fra i primi sport che consentono a ragazzi nati da stranieri e cresciuti in Italia di partecipare a campionati italiani, sebbene non possano rappresentare il paese in ambito internazionale: lo sportivo. Pallavolo e pallanuoto battono due strade opposte per tutelare la Nazionale. Il volley fa nascere in campo femminile Club Italia, una squadra azzurra che partecipa al campionato di A2 come le altre, senza l’obbligo di doverlo vincere, ma solo per far crescere le ragazze. Funziona. Per respingere il massiccio ricorso alle naturalizzazioni, la pallanuoto affida invece un progetto di valorizzazione degli italiani in campionato al ct Campagna, che passa un’estate a scrivere e si presenta in federazione con un pacco di fogli. Mette dei paletti. Non sono limitati gli ingaggi degli stranieri, ma si obbligano le squadre ad avere in acqua sempre 4 italiani su 7. Se entra uno straniero deve uscirne un altro. Un meccanismo che costa una procedura d’infrazione dell’Ue contro l’Italia, ma sportivamente dà frutti. Il Settebello è competitivo.
Il calcio invece va avanti a tentoni. Il successore di Lippi in azzurro, Cesare Prandelli, nei primi due anni porta una filosofia costruttiva di gioco ispirata all’esempio spagnolo, la riscoperta del valore etico e sociale della maglia azzurra, l’introduzione degli stage formativi. E costruisce il progetto tecnico intorno a Mario Balotelli, considerato l’unica speranza italiana ma beccato dalla parte più becera dell’opinione pubblica per il colore della sua pelle: «Non esistono neri italiani», urlano gli Ultras Italia contro la Romania. Agli Europei in Polonia e Ucraina, quelli che avrebbe dovuto organizzare, l’Italia rischia di uscire al primo turno ma arriva in fondo, eliminando la Germania proprio con una doppietta di Balotelli. La sua esultanza a torso nudo nella semifinale di Varsavia diventa un’icona: lui stesso si farà costruire una statua a casa in quella posa, sembra un manifesto dell’integrazione. Battuta nettamente in finale dalla solita Spagna, l’Italia non sa però rinnovarsi verso il Mondiale. Il nuovo biennio, aperto alla generazione del ’90 (Verratti, Insigne, Immobile) è un fallimento, all’ultimo momento viene richiamato Cassano e naturalizzato Paletta. L’Italia scopre quanto è dura battere Malta, e che si può pareggiare con Armenia e Lussemburgo. Le amichevoli mai vinte peggiorano il ranking, il pasticcio di una partita inutile organizzata contro San Marino nel 2013 risulta determinante per non essere teste di serie in Brasile. La catena degli errori si sta allungando e in Federazione nessuno se ne accorge, nessuno alza la mano per avvertire che lo rotta giusta è un’altra.
A un mese dal Mondiale un nuovo dramma. Si gioca a Roma la finale di Coppa Italia, Napoli- Fiorentina. Un corteo di tifosi partenopei si dirige all’Olimpico quando vengono esplosi sette colpi di pistola. Le forze di polizia vengono assaltate da migliaia di violenti incappucciati, un blindato e due auto di servizio distrutti. Ciro Esposito, 31 anni, tifoso del Napoli, resta a terra ferito. Morirà in ospedale oltre un mese dopo. A sparare, l’ultrà romanista Daniele De Santis, poi condannato a 16 anni. De Santis nel 2004 aveva fatto sospendere un derby per la notizia, rivelatasi poi falsa, di un bambino travolto e ucciso dalla polizia. La finale si gioca lo stesso, comincia con 45 minuti di ritardo dopo una trattativa con gli ultrà: l’Italia conosce Genny ‘a Carogna, inquadrato mentre guida i tifosi indossando la maglietta “Speziale libero”. Antonino Speziale è l’ultrà condannato per l’omicidio Raciti.
È in questo clima che l’Italia parte per il Brasile. Il ritiro fissato a Mangaratiba è aperto da Prandelli alle famiglie dei calciatori come un villaggio vacanze. Un gol di Godin dell’Uruguay, quando basterebbe lo 0-0 per passareandare avanti, rimanda a casa gli azzurri e costa ad Abete più degli scandali. Presidente e ct nella sala stampa di Natal rassegnano le dimissioni in mondovisione. Ma il disastro è solo il preludio a un diluvio universale: l’inizio dell’era Tavecchio.
L’Italia di Tavecchio
Per voltare pagina, il calcio italiano trova un uomo nuovo, si fa per dire: Carlo Tavecchio, classe 1943, presidente dei Dilettanti dal ‘98. Prima fa di tutto per convincere Abete a ritirare le dimissioni. Poi si candida e tira fuori la figura mitica di Optì Pobà, mangiatore di banane e calciatore della Lazio. Sarà solo la prima di una serie di uscite offensive. Il vero dominus delle elezioni è Claudio Lotito, che convoglia su Tavecchio i voti delle quattro leghe. Decidono i padroni, compatti. Calciatori, allenatori e arbitri sostengono Demetrio Albertini in una corsa senza speranze. Un mese dopo, la situazione diventa tragicomica: la Federcalcio ospita a Roma Respect Diversity, il convegno annuale Uefa contro le discriminazioni, ma Tavecchio non partecipa e non fa gli onori di casa, perché è sotto inchiesta. Per razzismo.
Il presidente, che verrà punito da Uefa e Fifa, ha bisogno di un grande ct per rilanciarsi. Chiama Antonio Conte, che ha appena divorziato dalla Juventus. L’allenatore risponde dalla barca: «Grazie presidente, ma io costo tanto…». Un accordo con Puma, che ottiene i diritti d’immagine del ct, sblocca l’operazione. L’effetto Conte porta gli azzurri all’Europeo in Francia dove l’Italia batte la Spagna (la Spagna!) ed esce nei quarti ai rigori contro la Germania. Ma Conte ha già deciso di andare al Chelsea. E all’orizzonte c’è una nuova sciagura per l’Italia: Gian Piero Ventura.
Da un ct giovane, carismatico, rampante e con uno stipendio di prima fascia, la Federcalcio passa a un tecnico navigato, ma con un profilo assai più basso e senza esperienza internazionale. È stato in tutto sette volte all’estero. Il passaggio da Conte a Ventura è traumatico: ingaggiato per proseguire, anche tatticamente, il lavoro del suo predecessore, Ventura rivela l’ambizione di liberarsi del fantasma di Antonio, spiega la sua passione del mestiere con la parola libidine, terminologia cara a Jerry Calà negli anni 80. C’è un altro dettaglio paradossale. La prima scelta di Tavecchio sarebbe il ritorno di Donadoni. Hanno stretto un feeling nei giorni del caso Parma, allenato dall’ex ct. Già, perché intanto succede pure questo: una squadra dal grande passato, iscritta regolarmente in A, non paga gli stipendi per mesi. Per due volte i suoi calciatori scioperano. Il Parma viene accompagnato fino alla fine della stagione e poi lasciato morire. “Mai più” promettono i vertici del calcio. Come no, certo: il Modena in C è stato appena cancellato dal campionato, non aveva i soldi neppure per iniziarlo.
Donadoni, passato al Bologna, non torna in azzurro. E allora Tavecchio vira su un altro grande ritorno: di nuovo Lippi, reduce dai successi in Cina. Sarà il direttore tecnico, lavora in incognito con Gian Piero Ventura per settimane. C’è un problema, però. Lo svela Repubblica. Il nuovo regolamento degli agenti di calciatori vieta a di fare l’agente a chi ha un parente in Federcalcio. Il figlio di Marcello, Davide, non potrebbe proseguire l’attività. È una norma che Tavecchio ha fatto approvare appena un anno prima: già non se la ricorda più. Lippi saluta con stile, non vuole deroghe ad personam. Ma è furioso: «Mi hanno preso in giro». Ventura resta così plenipotenziario, avanza pretese. Prima di Spagna-Italia gli rinnovano il contratto fino al 2020, con stipendio da 1,5 milioni. Ma il Mondiale è tutt’altro che conquistato.
La sensazione, dal primo giorno, è che conti solo la partita di Madrid nelle qualificazioni. Il ct chiede persino di anticipare l’inizio del campionato per avere giocatori più pronti: Tavecchio, presidente della Figc e nel frattempo pure commissario di una Lega paralizzata da mesi, una concentrazione di potere enorme, non riesce ad accontentarlo. Fra Ventura e i senatori azzurri non nasce mai il feeling, le frizioni crescono. A marzo, Barzagli dopo Italia-Albania ottiene un permesso per saltare l’Olanda, poi viene ritratto su Instagram in un locale ( un normale ristorante, chiarirà). Ventura: «A saperlo, non lo avrei chiamato. Mi aveva detto che aveva problemi con la moglie…». Tra i due, mai un chiarimento. La Nazionale viene edificata sul rancore. A Madrid, l’Italia si schiera con un atteggiamento tattico tutto offensivo: «Non ci sono mica i coccodrilli», s’incoraggia il ct. Invece l’Italia viene miniaturizzata dalla Spagna, e il fragile equilibrio si rompe definitivamente. Buffon lancia un segnale: «Il mister capirà che ci sono partite da giocare in un modo e altre in un altro». Le incomprensioni crescono. Con Barzagli c’è un diverbio a Coverciano, un allenamento interrotto per sopire i contrasti. Ventura, già insofferente con i bordocampisti Rai a Madrid, prima di Italia-Macedonia litiga pure con un cronista straniero, che ipotizza le sue dimissioni in caso di mancato successo: «Si faccia spiegare che noi siamo già ai play off con due turni d’anticipo», gonfia il petto. Non è vero. Il pari acuisce la crisi, al Filadelfia, il giorno dopo, la squadra si riunisce senza lo staff: extra omnes. Comincia l’autogestione. A Stoccolma, Insigne entra in campo a un quarto d’ora dalla fine e deve giocare in mezzo, quasi non ci crede: «Eh, al centro, al centro», spiega a un compagno. Ventura medita di fargliela pagare. Tornato in Italia, alla Pinetina litiga di nuovo con i senatori che invece lo vogliono titolare nel 3- 4- 3. Fino alla scena madre di De Rossi a San Siro quando gli viene chiesto di scaldarsi: «Che c’entro io, dobbiamo vincere, mica pareggia’». Il quadro di un mondo fuori controllo: Ventura, 24 ore dopo l’eliminazione storica rivendicherà la sua gestione come una delle più vincenti di sempre. E anche lo stipendio fino a luglio: lo avrà. Gli manca solo il premio qualificazione: quello proprio non possono pagarglielo.
La Lega, Infront e le riforme
Tutto quello che è successo in campo, in questo abbondante decennio, è solo il prodotto finale di ciò che era stato deciso – o, meglio, non deciso altrove, in Federazione dai soliti dirigenti o in Lega dall’advisor. Da Abete a Tavecchio non è cambiato nulla. Come non era cambiato nulla in precedenza: Petrucci, Matarrese, Beretta, Carraro. Come non cambierà nulla in futuro. Nella paralisi istituzionale più completa, a decidere è chi ha in mano i cordoni della borsa. Negli ultimi dieci anni Infront. La Lega è “eterodiretta”. La Figc è solo un gigantesco, prolisso tavolo sindacale al quale partecipa una miriade disomogenea di componenti. Ciascuna con interessi diversi se non opposti all’altra. C’è la Serie A che gestisce squadre con calciatori potentissimi (molti fatturano come vere e proprie aziende) e ci sono campionati minori dove i giocatori sono un proletariato. La sintesi è impossibile, la palude inevitabile. E nella palude trionfano i coccodrilli. I diritti tv garantiscono fra il 50 e il 60 per cento dei ricavi a un sistema che si nutre di quelli e poi tira a campare. La riforma dei campionati, la promessa eccellente fatta da chiunque sieda su una nuova poltrona, resta lettera morta. Nell’aprile del 2013 Giovanni Malagò, appena eletto al Coni, dichiara a Repubblica che se entro il settembre successivo la Figc non avrà ridotto la A a 18 squadre, interverrà. Oggi, dopo lo sfascio, suggerisce fermo a Tavecchio: «Al suo posto mi dimetterei». Ma fermo resta.
La verità è che cambierebbe poco. Perché l’asse del potere si è spostato dalla Federcalcio alla Lega e alla sua assemblea, dominata da Infront per gli affari rilevanti, da Claudio Lotito per le minuzie. Il ruolo del presidente della Lazio è uno dei simboli più incredibili della crisi. Molti, a turno, lo giudicano impresentabile e ne prendono le distanze. Poi tornano tutti da lui, da dieci anni tra i personaggi più potenti in un sistema dove conta chi aggrega consensi. Lotito insegna: «I voti si contano, non si pesano».
Ma il consenso, nel calcio, è il timone di una nave ferma. Il sistema è imprigionato in un’atrofia. D’altronde, né la Lega di A né quella di B sono riuscite tuttora a eleggere i propri vertici, a otto mesi dal rinnovo di quelli federali. Nessuno ha interesse a creare valore. Non i presidenti di club, cui basta mungere annualmente la grande mammella dei diritti tv, gonfiata da Bogarelli. Non le istituzioni interessate principalmente all’altra grande mammella, quella dei soldi che annualmente lo Stato gira al Coni. Il quale dal canto suo si dimostra incapace di modificare un mondo ormai sbriciolato e inefficiente. Con queste premesse, l’inadeguatezza della classe dirigente si perpetua, come i conflitti di interesse al suo interno. Inevitabilmente, dato l’eccesso di ruolo e una certa soggettiva predisposizione alle scorciatoie, sia l’advisor sia il presidente della Lazio hanno i loro bei problemi. E così la nave ferma ha cominciato a imbarcare acqua.
L’Apocalisse ( quella vera)
Marzo 2017. Tavecchio viene rieletto senza problemi. Batte Andrea Abodi, presidente della B, che tre anni prima lo aveva sostenuto. La Juventus, che lo aveva definito impresentabile, cambia idea di colpo: per Andrea Agnelli, che anche per motivi estetici lo aveva osteggiato, è diventato l’uomo giusto grazie al ticket con il d.g. Michele Uva, caldeggiato da Lotti via Malagò. Ulivieri, che si era incatenato alla sede della Figc contro di lui, lo spinge e rompe il fronte sindacale con i calciatori: il comunista con il busto di Lenin in salotto vota con i padroni, diventerà vicepresidente e, davanti all’eliminazione della Nazionale, allargherà le braccia: «Mica era nel programma elettorale». Pure Nicchi, capo degli arbitri, contrario a Tavecchio nel 2014, cambia idea nella notte prima del voto, con l’intervento del nuovo capo dei Dilettanti Cosimo Sibilia. «Votiamo per chi non ci farà perdere soldi» spiegherà, candidamente.
Persi i treni dei due grandi eventi internazionali, battuto dai colpi della crisi economica mondiale, surclassato dalla concorrenza degli altri grandi paesi europei, il pallone italiano si è sgonfiato. Lo scenario attuale è apocalittico. Basta guardare quello che succede in campionato. Con il Milan passato dalle mani di Berlusconi a quelle di non si sa ancora chi, ma si sa bene come: attraverso flussi di denaro partiti da conti correnti delle isole Cayman, appoggiati su un conto di tesoreria delle British Virgin Islands ( Willy Shine di Tortola) e versati a una società di Hong Kong ( Rossoneri sport investment ltd). Seguono un calciomercato insensato e relative inquietudini societarie. Chiaro che il problema non riguarda solo il Milan. L’Inter di Moratti passò a Thohir più o meno nello stesso modo. Tutto sommato, non dissimile da quello studiato da Zamparini per provare a vendere (vendere?) il suo Palermo al fondo Integritas capital rappresentato da un giovane di qualche notorietà televisiva, il tatuatissimo Paul Baccaglini. Ma il tema delle proprietà ambigue, ignorato da istituzioni che avrebbero come primo dovere quello di indagare, non è nemmeno il più grave. Come suggeriscono le inchieste di Torino, della commissione antimafia e della procura federale sulla vicinanza tra la ’ndrangheta e alcuni club di A, compresa la Juventus, nella gestione dei biglietti.
Anche il bagarinaggio è solo un dettaglio. A Bergamo gli ultrà hanno organizzato una operosa associazione a delinquere che si occupa di traffico di droga sulle piazze e ovviamente nelle curve di mezzo nord Italia. Curve dove soffiano venti neonazisti.
Nel derby di Coppa Italia del 1° marzo tra Roma e Lazio, il nazionale tedesco Antonio Rüdiger viene tormentato da ululati razzisti della Nord. Il giudice federale Gerardo Mastrandrea decide di assolvere la Lazio da ogni accusa: non è possibile determinare in che percentuale gli spettatori avessero effettivamente ululato contro il calciatore prima che l’arbitro chiedesse ai dirigenti di intervenire con un annuncio via altoparlante. Chissà come si deve essere sentito Mastandrea quando, poche settimane fa, le immagini degli adesivi di Anna Frank con la maglietta della Roma hanno fatto il giro del mondo. Uno stato d’animo probabilmente non dissimile da quello con cui, il giorno dopo, Lotito si è presentato in Sinagoga a Roma per la sua ormai celebre “sceneggiata”.
Il disastro politico ha provocato prima uno sconquasso sportivo – i cui effetti si sono allungati fino alla storica eliminazione contro la Svezia – e poi uno culturale. Al quale sta seguendo anche un dissesto economico. Perfettamente misurabile nell’asta per i diritti tv domestici del prossimo triennio, andata deserta la scorsa estate. Mentre il resto d’Europa – Inghilterra e Spagna soprattutto – continua a incrementare i propri guadagni vendendo lo spettacolo dei rispettivi campionati, l’Italia è ferma al palo e sarà un miracolo se alla fine Infront – nel frattempo mutata sia nella proprietà, ora cinese, sia nel management guidato dall’ex Rai Luigi De Siervo – riuscirà a incassare quanto Bogarelli.
Bogarelli intanto, come vuole la prassi del calcio italiano, dopo essersi fatto da parte per risolvere i problemi con la giustizia, si prepara al rientro in grande stile, utilizzando l’identico schema del 2008: dal suo esilio volontario londinese ha trovato un po’ di finanziatori intenzionati a scommettere su di lui, e adesso si propone per garantire ai presidenti di club 15 miliardi di euro in 10 anni nel caso in cui volessero averlo come partner finanziario e realizzare il suo vecchio sogno, il “canale della Lega”. Un progetto che taglierebbe le gambe a Sky e a Mediaset e lo rimetterebbe esattamente al centro del sistema. Dieci anni dopo.
Ed è così che, buio dopo buio, il calcio italiano è arrivato all’ultima notte di San Siro, la più profonda di tutte. Una notte cominciata il 2 settembre in Spagna, con il peccato di hybris, la tracotanza: quattro attaccanti tutti insieme, per riuscire a prendere tre gol (a zero). Quella sera, il commissario tecnico Ventura ha perso il filo e non l’ha più ritrovato. Bastava guardare le facce prima di Italia-Svezia per capire ogni cosa, per prevedere e immaginare. Le facce dei giocatori in campo, dell’allenatore tutto solo in un angolo, sempre con le mani in tasca, prima di mettersi a borbottare in panchina per l’ultima volta e camminare avanti indietro, facendo smorfie di disappunto e disgusto, sbracciandosi, battendo forte le mani. Schemi di psicomotricità che possono andare bene per i bambini, non per un gruppo di professionisti smarriti da portare al Mondiale.
L’ultima notte le riassume tutte, è il palcoscenico di un lungo copione. Ci si arriva attraversando la tenebra precedente. L’ultima notte ha dentro la sconfitta del Bernabeu, l’assurdo pareggio contro la Macedonia a Torino, il direttorio riunito al Filadelfia chiudendo le porte in faccia al tecnico. La Svezia è l’avversario meno malleabile tra i possibili, il meno friabile, il più atleticamente solido, il più disposto a virare la doppia sfida in scontro di muscoli, in conflitto di ossa e gomiti e chili e centimetri. La strada verso il cuore di tenebra sarebbe passata anche per la sofferenza dei corpi. Perché questo è accaduto, a Solna: gli svedesi ci hanno picchiato e poi sconfitto in quell’unico modo sporco che potevano, con uno sciocco pallone deviato. Perché quando si cade davvero, si cade umiliandosi. Negli occhi di San Siro ci sono gli occhi smarriti di Stoccolma, lo scetticismo diffuso. Anche la gente ha capito. Tutto lo stadio fischia Ventura prima che la partita cominci, e purtroppo anche l’inno nazionale svedese perché a volte diventiamo gente cattiva, gente frustrata e feroce. Ma intanto è la Svezia a catturare il pallone e noi la guardiamo, procediamo d’istinto, a rimbalzi, facendo girare l’azione come una lenta mezzaluna, ogni movimento così prevedibile e vano. Li ricordate i bambini della scuola calcio? Avevamo cominciato da loro, ed ecco sul prato del Meazza i loro sogni incarnati e squadernati, la personificazione di un futuro che arriverà solo per pochissimi. Per uno come Lorenzo Insigne, ad esempio: è un campione del Napoli, forse il miglior giocatore italiano. È nato in provincia, a Frattamaggiore e ha tre fratelli tutti calciatori: Antonio, Roberto e Marco. Nel 2006, a 15 anni compiuti entra a far parte del settore giovanile del Napoli che lo acquista dall’Olimpia Sant’Arpino per 1500 euro. Lorenzo è uno dei 5 mila che ce l’hanno fatta, si potrebbe dire che è qui a nome di tutti gli altri, quelli che invece non potevano, non avrebbero potuto. Ma Insigne resta in panchina, e da quell’assenza non si sposterà più: la tenebra azzurra non prevede di essere rischiarata dalla sua fantasia. È lui, alla fine, l’emblema incolpevole e involontario della resa: se il più bravo non gioca vuol dire che il sistema è stanco, che si sono persi i concetti fondamentali. Quattro giorni prima, in Svezia, a Lorenzo erano stati concessi da Ventura meno di venti minuti, gli ultimi, i più disperati. Fuori posizione del tutto. Anche un bambino sa che Lorenzo gioca a sinistra e poi si accentra con la finta e il tiro a giro. Ècosì che segna quasi tutti i gol, e di gol avrebbe bisogno l’Italia per andare ai Mondiali. Ma a San Siro non c’è posto per Insigne. Non c’è posto neppure per un altro ragazzo del settore giovanile, questa volta della Roma, Daniele De Rossi. Uno a cui le gambe non tremano mai. Servirebbe come il pane la sua esperienza, invece Ventura lo lascia fuori: come la prenderanno i 4999 bambini delle scuole calcio che non esordiranno mai in serie A?
Il caos totale degli azzurri e del loro condottiero all’ultima esibizione. Ognuno, in qualche modo, simbolo e metafora per una notte di tutto il buio che l’ha preceduto. Ognuno portatore di smarrimento e paura, spiazzamento e stanchezza. Ognuno incapace di capire, interpretare, decodificare i messaggi. Come se gli undici ex allievi della scuola calcio, adesso undici azzurri, i più bravi giocatori italiani, gli eletti, non sapessero più come si gioca a pallone. Come se avessero smesso di farlo, come se non avessero mai cominciato. Tutte le lezioni dimenticate. Cancellate tutte le sere trascorse al campetto di allenamento a guardare alzarsi la nebbia di novembre, oppure a cercare una borraccia per dissetarsi nei primi caldi feroci dell’estate. Ogni gesto perduto, ogni lezione scordata. Non dev’essere stato facile condurre ad un simile livello di regressione un gruppo di professionisti che hanno vissuto finali di Coppe, notti decisive, rigori senza appello, rimonte e vertigini, imprese di ogni tipo, quelle inferte e quelle sofferte. Eppure, nella notte di San Siro è come se più niente esistesse. Fine del passato, imbarazzo del presente, mistero del futuro. Spariscono le certezze minime, le coordinate che ti aveva insegnato il primo maestro appoggiando a terra i coni di plastica. È come se il cervello passasse a muscoli e nervi una sola informazione: dare il pallone al compagno più vicino, ma sempre qualche centimetro appena più avanti o più indietro del necessario. Ne risulta un’immagine complessivamente sfocata, come succedeva al tempo delle macchine fotografiche manuali: se ti muovevi, lo scatto era rovinato. Ed è così che accade, la Nazionale gioca dentro un’opaca nuvola di polvere, i contorni sono sfumati, nessuno sa davvero dove andare e dove mettersi. Non lo sa neppure Ventura, che ormai è un vortice di braccia e mani che mulinano l’aria. L’uomo che incautamente lo scelse, il presidente Tavecchio, sta sprofondando nel seggiolino della tribuna e da lì scomparirà con la fuga finale, quando né lui né Ventura diranno l’unica cosa che dovrebbero: abbiamo sbagliato e ce ne andiamo.
Nella tenebra cambiano solo le sfumature d’azzurro, c’è quella intensissima di Gigi Buffon che piange con la voce spezzata come un vetro e ci sono quelle dei suoi compagni al passo d’addio, proprio come il leggendario portiere che a quarant’anni non avrà il suo sesto Mondiale. Gigi è stato un bambino precoce, era altissimo già a dieci anni, all’inizio giocava in attacco ma poi comprese che il suo destino era una tana rettangolare con la rete e i legni a segnare i confini. Quelle sere al campetto, anche Buffon le ricorda. Le voci degli adulti, un po’ perse nell’oscurità e nel controluce dei lampioni. Le sagome delle case che svaniscono quando il cuore sembra scappare dal petto. L’estasi della partita annulla suoni e visioni, il calciatore è sempre solo, che abbia otto anni o quaranta, ormai. Il senso della squadra è irrinunciabile, ma è anche una bellissima illusione ottica. Perché ogni atleta si accompagna soltanto a se stesso quando viene il momento di soffrire: da come riuscirai a superarlo, se ci riuscirai, è scritto il destino. Gli undici bambini della scuola calcio in maglia azzurra lo sanno, mentre la partita finisce e ricomincia la notte.