la Repubblica, 17 novembre 2017
Il giallo dell’arresto di Hariri risolto dal mediatore Macron
BEIRUT Il premier libanese Saad Hariri, “bloccato” da 14 giorni a Riad, da dove ha improvvisamente annunciato le sue dimissioni, partirà, domani per Parigi, assieme alla famiglia, dove incontrerà il presidente francese, Emmanuel Macron, il quale nei giorni scorsi lo aveva invitato a compiere una «visita amichevole» di qualche giorno nella capitale francese. Subito dopo, Hariri è atteso a Beirut, dal presidente della Repubblica libanese, il generale Michel Aoun, per formalizzare le sue dimissioni.
Non fosse per il velo di vaghezza che ha sin dall’inizio avvolto i vari passaggi di questo giallo internazionale, si potrebbe dire che il caso-Hariri si avvia a essere risolto. Lo stesso generale Aoun, che mercoledì scorso aveva accusato apertamente l’Arabia Saudita di tenere Hariri in ostaggio, ha espresso, in un tweet, la speranza che «la crisi sia finita» e che, «dopo l’accettazione da parte di Hariri dell’invito della Francia, la porta della soluzione sia aperta».
C’era evidentemente bisogno di un arbitro, una terza parte, che offrisse all’Arabia Saudita, una via d’uscita dall’inghippo in cui si è cacciata da sola senza perdere la faccia e al tempo stesso che permettesse al Libano di aprire una fase di riflessione sul ruolo del partito sciita filo-iraniano Hezbollah, senza dare l’impressione di cedere all’ultimatum di Riad. Il mediatore di successo è stato Macron.
Naturalmente, la corsa a ridimensionare la vicenda è cominciata. «Monsieur Hariri è libero di lasciare l’Arabia Saudita quando desidera e nel momento in cui lo desidera», ha ripetuto il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, apparso davanti ai giornalisti assieme al collega saudita, Adel al Jubeir.
Il quale ha ripetuto che «Hariri ha agito di sua spontanea volontà», aggiungendo che Riad si sta consultando con gli alleati su come far fronte alla minaccia rappresentata da Hezbollah e all’Iran ha mandato a dire che «Il troppo è troppo!».
Ma il mistero Hariri resta. A cominciare dalla partenza del primo ministro il 3 novembre da Beirut, in seguito a un’improvvisa convocazione dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, per continuare con la sua improvvisa apparizione l’indomani, a Riad, davanti alle telecamere di Al Arabya, per leggere una lettera di dimissioni che molti pensano non sia stata scritta da lui, che è un atto di accusa contro l’«aggressione» perpetrata da Iran e Hezbollah ai danni del Libano e del mondo arabo.
Se, dunque, come si può intuire, le dimissioni del premier Saad Hariri erano parte di un piano più ampio che avrebbe dovuto suscitare quanto meno una mobilitazione internazionale contro l’Iran e gli Hezbollah, provocando una immediata crisi politica nella fragile Repubblica libanese, con la conseguente fatale contrapposizione fra le varie fazioni, e un immediato innalzamento della tensione nei vari teatri di crisi dove il conflitto è sempre in agguato come, sull’altipiano del Golan o sul confine tra Libano e Israele, allora va detto che questo piano è fallito.
Non soltanto la classe politica libanese non si è divisa, ma ha saputo dare un’insolita prova di unità reclamando (anche quelli che consideravano fondate le rimostranze saudite contro il governo Hariri) innanzitutto il rispetto per le regole del gioco.
In secondo luogo, se nelle intenzioni dell’erede al trono Mohammed bin Salman, l’uomo forte sulla scena saudita, e dei suoi partner c’era anche l’idea di servire a Israele il pretesto per attaccare Hezbollah, di cui lo Stato ebraico è sicuramente il nemico N.1, anche questo calcolo s’è rivelato sbagliato.
In un’intervista senza precedenti a un giornale privato on line arabo, il Capo di Stato Maggiore israeliano Gadi Eisenkot ha detto che Israele, anche se è pronto a cooperare con Riad a livello di scambio di informazioni di Intelligence per far fronte alla comune minaccia dell’Iran, ma non ha intenzione di lanciare un’offensiva contro le milizie sciite di Hezbollah nel vicino Libano.