Corriere della Sera, 17 novembre 2017
Ritratto di Totò Riina, «’U curtu», il boss delle stragi. Da Corleone ha sfidato lo Stato senza mai svelare i suoi segreti
E così la parabola terrena e mafiosa di Totò Riina sembra davvero finita. Di sicuro quella di capomafia, come in qualche modo certifica la decisione del ministro della Giustizia Orlando di derogare alle regole ferree del «41 bis» consentendo a moglie e figli di stargli vicino (compreso Salvo, «libero vigilato»). Ma è una fine raggiunta da «guida di Cosa nostra» tuttora riconosciuta dagli altri uomini d’onore, come hanno scritto gli analisti della Dia nella loro ultima relazione.
È stato il boss che ha imposto la sua dittatura dentro Cosa nostra, il piccolo padrino che ha scalato le gerarchie imponendosi a colpi di mitragliette, tritolo e «tragedie», e dichiarò guerra allo Stato. Per obbligarlo a una nuova convivenza, dopo quella con la vecchia mafia che lui aveva piegato ai suoi voleri. Con gli omicidi e le stragi del 1992 sferrò l’attacco più violento, uccidendo gli ex amici come Salvo Lima e Ignazio Salvo, e i nemici storici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tra i pochi a capire da prima la pericolosità della sua strategia. Per Riina si rivelò un errore fatale: lo Stato, quel che ne restava dopo Capaci e via D’Amelio, fu costretto a reagire come mai aveva fatto prima, e le cosche dovettero subire una controffensiva mai vista. Trattativa o non trattativa, l’ala terroristica e corleonese fu travolta e sgominata. A cominciare proprio dalla caduta del «capo dei capi», primo arrestato eccellente di una stagione cominciata nel gennaio 1993.
Su quell’arresto, nonostante i processi conclusi con le assoluzioni, le zone d’ombra non si sono mai dissipate del tutto. Ma anche le ipotesi e le illazioni più «dietrologiche» sulla fine di quella venticinquennale latitanza fanno comunque parte di una sconfitta. Magari a vantaggio di una mafia diversa, meno violenta e forse più insidiosa, ma comunque sconfitta. Arrivata però dopo una stagione di sangue e di trame che ha provocato montagne di cadaveri, ricatti e svolte drammatiche nella storia repubblicana. Anche in quel drammatico 1992: le morti di Falcone e Borsellino, insieme alle inchieste su Tangentopoli, hanno deviato in maniera irreversibile il corso della politica italiana.
E lui, ’u curtu che si credeva grande, ha continuato a considerarsi un vincitore fino alla fine. Negli ultimi venticinque anni di galera e di processi ha lasciato parole e immagini in cui s’è solo incensato. Dalle prime apparizioni nelle aule giudiziarie, quando sfidava i pentiti nei confronti (sebbene ne uscisse regolarmente battuto), alle dichiarazioni contro i giudici e i «comunisti» che lo volevano incastrare a ogni costo, fino all’autonarrazione affidata alle microspie che registravano i suoi colloqui con il figlio maggiore Giovanni, mafioso ergastolano pure lui. «Tu sai che papà se la cava, tu pensa sempre che papà è fenomenale – gli disse in un incontro del 2010 —. Sono un fenomeno. Tu lo sai che io non sono normale, non faccio parte delle persone uguali a tutti, sono estero... Nella storia, quando poi non ci sono più, voialtri dovete dire e dovete sapere che avete un padre che non ce n’è sulla terra, non credete che ne trovate, un altro non ce n’è perché io sono di un’onestà e di una correttezza non comune».
I figli diranno ciò che vorranno, ma la storia della mafia guidata da Totò Riina è quella di un’organizzazione criminale aggredita al suo interno dal boss corleonese cresciuto a suon di bombe (vide scoppiare la prima quando suo padre saltò in aria nel 1943 mentre cercava di estrarre la polvere da un ordigno inesploso lasciato dagli americani, uccidendo se stesso e il figlio più piccolo), che dopo aver fatto fuori i mafiosi di «tradizione palermitana» decise di decapitare i vertici istituzionali della Sicilia. La «mattanza» che tra il 1979 e il 1983 ha tolto di mezzo i responsabili della politica, della magistratura e delle forze dell’ordine sull’isola non ha precedenti in nessun Paese occidentale. Provocando dubbi negli altri mafiosi, che per esempio hanno continuato a interrogarsi sui reali motivi che portarono all’uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, assassinato prima ancora che potesse fare qualcosa di concreto, mentre trovava i principali ostacoli all’interno dello Stato, più che nelle cosche.
Ma in quella specie di autobiografia consegnata nel 2013 al suo compagno di passeggio in carcere, nonché alle «cimici» nascoste in cortile, non ci sono spiegazioni ai suoi comportamenti. Solo autoesaltazione, nuovi progetti di morte contro i «magistrati persecutori» e recriminazioni contro capimafia meno «onesti» e intelligenti di lui; per esempio il latitante Matteo Messina Denaro, accusato di pensare solo a se stesso abbandonando i detenuti. Ma fino alla fine ha voluto giocare il ruolo del più furbo. Forse consapevole (senza mai ammetterlo, però) di fare parte di un gioco più grande, ma gratificato dal ruolo ritagliato per se stesso. Già abbastanza sovradimensionato rispetto a un «corto» come Totò Riina.