La Stampa, 16 novembre 2017
La pausa pranzo ingannevole ossimoro
Qualche campione dell’ossimoro creò un giorno l’ingannevole termine «pausa-pranzo», consegnando intere generazioni di lavoratori alla negazione dell’incontro con il sapore, all’ineluttabilità della mancata digestione e all’impossibilità di fruire del meritato riposo. L’atto del mangiare rappresenta infatti un’attività di grande importanza psicologica, metabolica e sociale e, come tutte le azioni che comportino impegno in termini fisici e mentali, non può essere svolta contemporaneamente a un’altra e soprattutto non può essere considerata un momento di riposo. Quindi o si pranza o si recuperano le energie. Il riposo andrebbe invece effettuato dopo aver pranzato. È così, da sempre, per gli animali, per chi si dedicava al faticoso lavoro dei campi, per i monaci nei conventi, per i bambini all’asilo. La Scuola Medica Salernitana, nel Medioevo, recitava «post prandium aut stabis aut lente deambulabis», dopo pranzo è buona norma o riposarsi o camminare molto lentamente. E sono molte ancora oggi le culture in cui è presente il sonnellino post-prandiale: addirittura in alcuni Paesi asiatici, dove le multinazionali non hanno potuto resistere alla richiesta di fornire giacigli dove ritemprarsi dopo mangiato, si è registrato un aumento dell’efficienza lavorativa. Oggi il tramezzino di fronte al computer è la norma, ma la difesa della dignità del sapore passerebbe più dalle mense che dai ristoranti stellati.
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