La Stampa, 16 novembre 2017
Intervista a Mauro Ferrari, presidente del Houston Methodist Research Institute: «Un’irresistibile tentazione ma l’umanità si espone a rischi ancora sconosciuti»
«I rischi sono altissimi, la nostra conoscenza delle funzioni dei geni è ancora molto limitata. Si tratta di tecniche dal forte impatto trasformativo, raccomando straordinaria cautela». A mettere in guardia è il professor Mauro Ferrari, luminare della medicina specialistica e presidente del Houston Methodist Research Institute.
Ad Oakland cosa è successo?
«Quello utilizzato è un approccio che permette di fare “editing” del Dna, tagliare certe basi togliere un nucleotide e metterne un altro. Quindi con precisione chirurgica a livello nanoscopico permette di fare modifiche al genoma».
È una tecnica rivoluzionaria?
«La tecnologia per fare questo in laboratorio era disponibile da qualche anno ed è stata oggetto di discussione, anche dal punto di vista bioetico. Tuttavia lo strumento che attiva questo “taglia e cuci” non si era mai dimostrato utilizzabile in vivo ma solo in vitro, perché nel primo caso serve un vettore per queste proteine che deve essere una nanoparticelle. Ci sono decine o centinaia di laboratori al mondo che stanno cercando approcci con altre nanoparticelle, per fare esattamente la stessa cosa fatta ad Oakland. Quindi ritengono che sia un corso praticamente inevitabile».
C’è un «però» nel suo ragionamento?
«È un approccio che può portare molti benefici perché può eliminare molte funzioni patogene. Ci sono malattie genetiche che sono associate a una disfunzione genica, a un errore di codice genetico. Almeno vale per le malattie che dipendono da un errore genico solo. Più complicate sono le malattie dove ci sono tanti geni coinvolti, come il cancro e magari l’instabilità genetica è tale che oggi ce ne sono 12 coinvolti, ma domani ce ne sono 23. Quindi, utilizzare questo approccio in maniera globale per curare tanti è molto problematico».
Parla di rischi che non si possono calcolare?
«Parlo di rischi ignoti. Sappiamo che il gene è correlato a una certa malattia, allora viene tolto o modificato. Ma non sappiamo quali modifiche quel gene può portare, perché conosciamo solo alcune funzioni corrispondenti ai vari geni. Un esempio: modifico il gene che cambia il colore degli occhi, ma chissà se quel cambiamento genetico fa venire il tumore alla prostata a 18 anni. Ci sono mille altre complicazioni possibili: la conoscenza delle funzioni dei vari geni e del loro collegamento epigenetico è molto limitata. L’idea di intervenire terapeuticamente con questi approcci, seppur attraente, potrebbe celare effetti collaterali enormi».
La sua idea, quindi?
«Sebbene la tecnologia sia disponibile e relativamente semplice, raccomanderei straordinaria cautela perché non ne sappiamo abbastanza».
Quindi ricorrerne solo in casi estremi?
«Non ho detto questo. Sono molto preoccupato: si inizia con un caso perché penso sia molto grave e poi all’improvviso è difficile tirare i freni. Raccomanderei alla comunità, non solo scientifica e medica, ma alla comunità in generale, di essere molto prudente».
Pensa al rischio di tecniche capaci di creare uomini e donne «a la carte»?
«Questi interventi potrebbero portare a modifiche molto importanti. Sono cose che possono avere un impatto di grande cambiamento sull’umanità, nel bene e nel male. Servono cautele senza precedenti».