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 2017  novembre 16 Giovedì calendario

L’inflessibile Giovanni Malagò, più potere che risultati: l’eclissi azzurra

“Se fossi Tavecchio, mi dimetterei”. Lui, però, si chiama Giovanni Malagò: sa sempre quale sarebbe la cosa più giusta, ma nella posizione scomoda di doverla fare non ci si trova mai. Il pallone tocca il punto più basso della sua storia, ma non è che lo sport italiano se la passi troppo meglio: dal basket al rugby, dal tennis all’atletica, gli azzurri sono praticamente scomparsi da anni, primeggiano quasi solo in alcune disciplina di nicchia. Carlo Tavecchio, insomma, è in buona compagnia al tavolo dei potenti che ragionano più da politici che da uomini sport, attenti agli interessi del palazzo più che a quelli del movimento. E nemmeno Malagò, che preferisce avere amici piuttosto che nemici, accontentare piuttosto che scontentare, è riuscito a fare molto per risollevarlo.
Lo scorso maggio Malagò è stato riconfermato, con percentuali bulgare e senza avversari, alla guida del Comitato olimpico per la seconda volta. All’assemblea elettiva aveva presentato un bilancio di mandato a dir poco lusinghiero. E in effetti i numeri, o almeno alcuni di essi, gli danno ragione: 28 medaglie alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016, esattamente come a Londra 2012 ma in un contesto più competitivo e un’età media più bassa; un ottimo risultato all’edizione invernale di Sochi 2014, dati Istat sulla pratica sportiva in continuo aumento. Praticamente un trionfo. In realtà, la situazione è un po’ più complicata di così.
In un Coni che è sempre più simile e contiguo al suo caro Circolo Aniene, tra consulenti e fidati collaboratori, Malagò si è mosso con disinvoltura, curando molto l’immagine. La riforma della giustizia sportiva, ad esempio, ha snellito tempi di indagini e processi, ma non ha certo risolto ogni problema. Di fronte ai tanti casi di contenziosi e conflitti di interessi nelle Federazioni, ha promesso di riformare statuti e regolamenti, ma prima ha incassato una comoda rielezione. Sulle diffuse difficoltà contabili delle varie discipline (come rivelato da un’inchiesta del Fatto Quotidiano, 23 su 44 hanno chiuso il 2016 in rosso, 7 sono quasi in bancarotta), si è sempre mostrato vigile, ma alla fine anche i bilanci più compromessi sono tutti stati approvati.
Il suo merito più grande probabilmente è aver riportato lo sport al centro dell’agenda politica del Paese, grazie alle sue pubbliche e private relazioni. Da decenni il Coni non era così vicino al governo, Renzi prima e Gentiloni ora. Non soltanto ha mantenuto serenamente il suo contributo pubblico da circa 410 milioni di euro, ma si sono moltiplicate iniziative e progetti. Il più importante è stato ovviamente la candidatura olimpica di Roma 2024, che è anche il grande rimpianto, la ferita ancora aperta, del suo mandato. Poi c’è il piano da 100 milioni di euro e appena rifinanziato di “Sport e periferie”, gestito a quattro mani col ministro Luca Lotti, le visite ufficiali del presidente Sergio Mattarella. E i grandi eventi: la sessione del Cio a Milano e gli Europei di calcio Under 21 nel 2019, i Mondiali di pallavolo nel 2018, quelli di Sci a Cortina nel 2021, la Ryder Cup di golf nel 2022. Tra una cosa e l’altra, si può dire che ormai lo Stato investe stabilmente quasi mezzo miliardo di euro ogni anno nello sport. Che sarebbe anche una cosa positiva, se arrivassero i risultati.
Il bilancio delle ultime Olimpiadi è sì positivo, ma solo grazie a quelle tre-quattro discipline che da sempre tirano la carretta. Un paio di nicchia, come scherma e tiro a volo, dove la concorrenza mondiale è molto ristretta e l’Italia, terra di maestri schermidori e di grandi armatori, la fa da padrona. E poi a tenere a galla lo sport italiano (e quindi il Coni) ci pensa il nuoto, presieduto per ironia del destino proprio da Paolo Barelli, che di Malagò è il più acerrimo nemico. Negli sport più importanti, invece, è notte fonda. E non da ora. Nel basket la nazionale è praticamente scomparsa dal 2004, anno dell’incredibile argento ai Giochi di Atene: la generazione dei vari Belinelli e Gallinari, considerata la più forte di sempre, ha bucato due Mondiali e due Olimpiadi di fila, da ultimo quella di Rio 2016, nonostante il torneo di qualificazione giocato in casa e costato una barca di soldi. Ma nessuno si è sognato di chiedere le dimissioni a Gianni Petrucci, tantomeno Malagò. Il rugby di Alfredo Gavazzi spende da un decennio fior di milioni per aver visto solo peggiorare il proprio livello al Sei Nazioni. L’atletica leggera è ai minimi storici, il tennis non esiste (la Federazione sembra più interessata a organizzare grandi eventi che a produrre giocatori decenti), persino la pallavolo è in calo. Oggi politica e istituzioni invocano la rifondazione del calcio e le dimissioni di Carlo Tavecchio. A guardare i risultati, non è il solo che dovrebbe mollare la poltrona.