Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2017
Cina, iperinflazione e abusi, finisce il regno di Mugabe. In 37 anni di dittatura il Paese è sprofondato nel disastro economico
Diamanti insanguinati, torture, violazioni dei diritti umani. E tanti affari, soprattutto con la Cina. Il lungo regno di Robert Mugabe sembra volto al termine.
L’anziano “padre padrone” dello Zimbabwe, 93 anni, da 37 al potere, non siede più sul suo trono. La lotta per la successione tra la scaltra first lady, Grace, 43 anni, e il gruppo guidato dal vicepresidente Emerson Mnangagwa aveva raggiunto un punto critico la scorsa settimana, quando Mugabe aveva defenestrato quest’ultimo, fedelissimo amico di lunga data fuggito poi in Sudafrica), accusandolo di tramare contro il presidente.
Ieri l’esercito nazionale ha rotto gli indugi. Per quanto neghi si tratti di un golpe, ha schierato soldati e blindati nelle strade della capitale Harare, ha occupato la tv e ha messo «sotto custodia» Mugabe, sua moglie e tre ministri. Se non è un colpo di Stato, poco ci manca. Quando un capo delle Forze armate compare in tv per annunciare di voler ripristinare l’ordine nel Paese, le cose sono in sostanza già fatte. Ed è davvero difficile che seguano in tempi brevi le libere elezioni, che anche in questo caso sono state annunciate.
Davanti a quest’azione di forza lo stesso partito di Mugabe, lo Zanu Pf, ha voltato le spalle al presidente. «Né lo Zimbabwe, né Zanu sono di proprietà di Mugabe e sua moglie. Oggi inizia una nuova era e il compagno Mnangagwa ci aiuterà a ottenere uno Zimbabwe migliore».
Salutato dalla popolazione come l’eroe che nel 1980 ha portato l’ex Rhodesia all’indipendenza, affrancandola dal giogo coloniale, Mugabe si è presto trasformato in un dittatore allergico a ogni forma di dissenso. Desideroso di impossessarsi delle miniere di diamanti del Congo meridionale, inviò l’esecito a fianco di quello governativo congolese, nella sanguinosa seconda guerra del Congo (1998-2003). Un intervento che, insieme alla disastrosa riforma agricola e alle generose regalie ai membri del suo entourage, mise in ginocchio le casse dello Stato.
La confisca delle terre dei proprietari britannici aveva creato grandi tensioni con Londra. Arrivarono poi le prime sanzioni da Usa ed Europa contro un regime accusato di gravi violazioni dei diritti umani. Dopo le successive sanzioni il Paese non poteva più ricevere l’assistenza finanziaria dall’Fmi e dalla Banca mondiale. Mugabe allora guardò a Est. Alla Cina, che proprio in quegli anni dava il via al suo safari africano elargendo prestiti miliardari a tassi ridicoli, in cambio di materie prime. Già solidi, i rapporti tra Mugabe e Pechino, non solo commerciali, si andarono rafforzando. Lo scambio commerciale tra i due Paesi (tra cui il ricercato tabacco) cominciò a impennarsi superando il miliardo di dollari nel 2012, per poi volare a livelli più alti.
Il modello seguito dalla Cina con Mugabe era il solito: costruzione di infrastrutture, esportazione delle ambite materie prime, impegno di non interferire negli affari interni del Paese. E, all’occorrenza, la minaccia del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Pechino lo ha usato in più occasioni. Dal 2009 al 2013, gli investimenti cinesi in Zimbabwe sono cresciuti del 5.000%. Proprio nel 2013 il “regno” di Mugabe è stato il Paese africano dove Pechino ha investito di più.
Ma non sono stati sempre business trasparenti quelli in cui sono state coinvolte le numerose compagnie cinesi presenti. Le conclusioni di un rapporto dell’Ong britannica Global Witness sul settore dei diamanti sono allarmanti; buona parte delle ricchezze provenienti dalle miniere statali sono spartite e usate dall’intelligence militare. Il potere centrale ha utilizzato i proventi dell’esportazione per finanziare la repressione. Dal 2010 a oggi, lo Zimbabwe ha esportato l’equivalente di 2,5 miliardi di dollari in diamanti.
Eppure solo 300 milioni sono stati chiaramente identificati nei conti pubblici. E tra i tanti nomi spunta l’impresa mineraria cinese Anjin Mining che ha come partner alcuni membri dell’esercito assieme a un investitore cinese. Il quale pare abbia venduto ad Anversa le gemme di sangue su cui pende un embargo europeo. In difficoltà per le sanzioni, Mugabe decise di stampare soldi per non affondare. L’inflazione toccò livelli incredibili; nell’ottobre del 2008 era volata a un tasso di 231 milioni per cento. Per non fermarsi più, fino a 90 miliardi di punti percentuali. Oggi in Zimbabwe non esiste una valuta locale, si usa il dollaro americano. Ma le cose non sono migliorate. Il 95% della popolazione non ha lavoro, tre milioni hanno scelto l’esilio. Questo fertile Paese di 16 milioni di abitanti è costretto a importare beni che potrebbe facilmente produrre. In diverse province la moneta più affidabile resta ancora una: la vacca.