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 2017  novembre 16 Giovedì calendario

La trama del Russiagate

Hanno acceso un riflettore su di lui nel 1977, quando era ancora agli esordi. Poi lo hanno “coltivato” per trent’anni, cercando di capire se il seme piantato nel momento più teso della Guerra Fredda avrebbe dato frutti. E alla fine hanno concluso la più grande operazione di spionaggio mai realizzata: influenzare, se non addirittura ricattare, il presidente degli Stati Uniti. Incredibile? La ragnatela con cui Mosca ha avvolto Donald Trump viene raccontata in un libro sconvolgente, che Repubblica anticipa in anteprima e in Italia viene edito da Mondadori. Il titolo è esplicito: “Collusion”. L’autore è Luke Harding, già corrispondente dalla Russia di The Guardian, espulso dal Paese per le sue inchieste scomode. Harding stava già investigando da mesi sugli affari che uniscono la Trump Tower al Cremlino quando ha incontrato Christopher Steele, l’ex agente britannico incaricato dagli oppositori repubblicani di The Donald di indagare sulla stessa trama, quel Russiagate che tiene in scacco l’uomo più potente del pianeta. Il risultato è un volume di 336 pagine che supera qualunque spy story.
L’intelligence russa ha cambiato nome, il Kgb del giovane Vladimir Putin è diventato Fsb, ma gli strumenti di lavoro sono rimasti quelli della vecchia scuola: soldi e sesso, due elementi chiave nella biografia di Trump. Su di lui gli apparati dell’Est hanno cominciato a raccogliere dossier dal 1977, quando il rampante costruttore sposò la modella ceca Ivana Zelnickova. I fascicoli desecretati a Praga un anno fa mostrano il monitoraggio della corrispondenza della donna e del viaggio in patria della coppia: «Secondo i documenti cechi, Ivana aveva menzionato il crescente interesse del marito per la carriera politica». Da questo nasce il primo invito nella capitale russa, ospite di Stato nel 1987 per discutere di investimenti: «Trump scrisse che quella di Mosca era stata “un’esperienza straordinaria”. I Trump alloggiarono nella suite Lenin al National Hotel, vicino alla Piazza Rossa, la stessa dove nell’ottobre 1917 Lenin e sua moglie avevano passato una settimana. Di sicuro era piena di cimici». I progetti non si concretizzarono. Ma fu al ritorno da Mosca che per la prima volta Trump «accennò alla possibilità di darsi alla politica, e non come sindaco o senatore. Stava pensando alla presidenza. Il 2 settembre 1987 – meno di due mesi dopo – esce sul New York Times un articolo dal titolo: Trump lancia vaghi segnali di candidatura».
Nel corso degli anni fioriscono relazioni sempre più intense, come l’amicizia con Aras Agalarov, il re dei centri commerciali legatissimo al Cremlino. Un’intesa cementata dall’edizione 2013 di Miss Universo – evento gestito da Trump – tenuta proprio a Mosca. E dalla frequentazione con Agalarov arriva nel mezzo della campagna elettorale l’offerta di materiali compromettenti su Hillary Clinton, «forniti direttamente dal governo russo».
Ma tutti gli uomini scelti da The Donald per la sua corsa alla presidenza hanno rapporti antichi con gli oligarchi putiniani. C’è Carter Page che discute con Igor Sechin, numero uno del colosso energetico statale Rosneft, la fine delle sanzioni contro la Russia. Ci sono Paul Manafort e Rick Gates, gli strateghi dell’elezione, da un decennio a libro paga del presidente filorusso dell’Ucraina e dell’industriale Deripaska. E c’è il generale Michael Flynn – nominato consigliere per la sicurezza nazionale – che pure aveva ceduto alla seduzione moscovita. «Era quasi come se Putin avesse avuto voce nella nomina del gabinetto Trump».
Con i magnati dell’Est The Donald ha concluso affari straordinariamente vantaggiosi. Dmitrij Rybolovlev, il miliardario che ha rilanciato il Monaco calcio, nel momento più nero della crisi del mattone gli compra la villa di Palm Beach per 95 milioni di dollari, il doppio del prezzo sborsato poco prima da Trump. Poi, alla vigilia della diffusione delle mail della rivale Clinton, Rybolovlev vola più volte nelle città dove si trovava il candidato. Non è stato l’unico russo ad acquistare appartamenti di prestigio dal futuro presidente: il libro ne descrive parecchi, alcuni dei quali arrestati per mafia. «Per quarant’anni i condomini extralusso di Trump avevano svolto il ruolo di lavanderia del denaro di Mosca». Ma la pista più inquietante è quella che passa dalla Germania. Con il tracollo immobiliare del 2008 Trump è a un passo dal crac. È indebitato soprattutto con Deutsche Bank, tanto da rispondere con azioni legali alle richieste dell’istituto. Ma due anni dopo la banca gli concede altri cento milioni, decisivi per sfuggire alla bancarotta. Quando entra alla Casa Bianca, i prestiti con la Deutsche Bank erano arrivati a 300 milioni di dollari. Ora “Collusion” ricostruisce una gigantesca triangolazione tra Mosca, Francoforte e New York. «Tra il 2010 e il 2015 furono spostati 10 miliardi dalla Russia in Occidente. Vtb, una banca del Cremlino gestita da persone vicine all’Fsb, sembrava essersi impadronita della filiale di Mosca di Deutsche Bank. Le divisioni di Deutsche Bank di Londra e New York avevano tratto benefici economici da questa situazione. Mentre avveniva tutto questo, Deutsche Bank prestava centinaia di milioni al futuro presidente».
Quello di Harding è un processo indiziario, un mosaico con decine di tessere, ma senza una prova definitiva. Putin infatti non ha centrato l’obiettivo principale: la revoca delle sanzioni. Finora. Perché anche lo scorso weekend Trump ha twettato: «Avere buone relazioni con Mosca è un bene». Soprattutto per lui.