la Repubblica, 16 novembre 2017
Debito, manovra-bis, aumento Iva. Ecco l’eredità che lascia il governo
ROMA Il garbato ambasciatore finlandese a Roma, compatriota del vice presidente della Commissione europea Jyrki Katainen, che ci rimprovera scarsa trasparenza sui conti, ieri ha confessato di amare l’Italia, la sua arte e il suo calcio, ma poi anche lui ha girato lo sguardo al 2018: «Come farete a piazzare i vostri titoli di Stato sui mercati internazionali quando la Bce cambierà linea?». Con pragmatismo nordico l’ambasciatore si affianca a coloro che avanzano preoccupazioni sulla crescita e sui conti pubblici e cominciano a valutare l’eredità che Pier Carlo Padoan lascerà al prossimo governo. Manovra- bis, privatizzazioni, 12,4 miliardi di clausola di salvaguardia e l’eterno problema del debito: quattro ostacoli da superare per il prossimo inquilino del Tesoro.
Una volta chiuse le urne e insediato il nuovo governo, si rischia una due diligence da brividi. Una corsa ad ostacoli di cui la prima tappa sarà il Def, il documento di economia e finanza, che andrà approvato in aprile: se saranno confermate le intenzioni di Bruxelles dovremo fare una manovra correttiva di circa 3-4 miliardi. Non si è infatti valutato, come rileva l’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, il tiraggio dei crediti d’imposta delle banche che da solo vale 3 miliardi in più di spesa pubblica, e che ha neutralizzato la manovrina della primavera scorsa. Circostanza che si lega a filo doppio con la differenza di valutazione sull’intervento di correzione sui conti del 2018 della legge di Bilancio in discussione in Senato: la Commissione non crede ai nostri calcoli e vuole di più.
Non è chiaro a chi spetterà il compito di redigere il Def, con dentro l’impegno alla possibile manovra: potrebbe essere lo stesso governo dimissionario Gentiloni- Padoan, come avvenne nel 2013 quando dopo le elezioni di febbraio, prima dell’insediamento del governo Letta, furono Monti-Grilli a firmare il documento di economia e finanza.
«Non siamo più il fanalino di coda», ha rivendicato ieri il premier Paolo Gentiloni all’Università Cattolica. Ma è un fatto che chiunque uscirà vincitore dalle urne, dovrà affrontare la questione dei conti. E il secondo ostacolo sarà rappresentato dalla nuova clausola di salvaguardia da 12,4 miliardi che, in assenza di tagli alla spesa o ricorso al deficit, prevede l’aumento dell’Iva dal 22 al 24,2 per cento dal 1 gennaio del 2019. Una “ipoteca” che si poteva evitare? È vero che le clausole sono nate con il governo Berlusconi nel 2011, ma Monti ed in parte Letta le disinnescarono con tagli alla spesa ed un aumento dell’Iva lasciando Renzi una “eredità” di tre miliardi. Renzi eliminò i tre miliardi di Letta, ma negli ultimi tre anni, dal 2015 al 2017, per coprire bonus e decontribuzioni, ha acceso nuove “cambiali” sui conti pubblici: la Finanziaria del 2016 ne introduceva la prima per 12,8 miliardi, per proseguire fino al 2018. Per non aumentare l’Iva, e non uccidere nella culla la ripresa, Padoan ha dovuto sterilizzare l’aumento dell’Iva, anche perché Renzi non ne voleva sapere. Come? Ricorrendo ai maggiori spazi di deficit concessi dalla flessibilità di Juncker. Così il”pagherò” è stato rinnovato anno dopo anno, senza affrontare i nodi della spesa, e sarà sulle spalle del prossimo inquilino di Via Venti Settembre. Forse non si poteva fare altrimenti, ma le cose stanno così.
Il terzo ostacolo sarà quello delle privatizzazioni: nella nota di aggiornamento del Def di settembre il target è stato ridotto allo 0,2 per cento del Pil, dallo 0,3 di settembre. Responsabilità vengono attribuite ai mercati, ma le operazioni Poste e Ferrovie sono state di fatto bloccate per le obiezioni del Pd al piano di Padoan. Questioni, probabilmente insieme a quella dell’Eni, che rimarranno sulla scrivania che fu di Quintino Sella.
Anche perché alle privatizzazioni si lega la questione del debito, quarto ostacolo. «Diminuzione aggressiva nel prossimo futuro», ha detto ieri Padoan in una intervista alla Cnbc. Per ora si prevede una graduale riduzione nel 2017 (al 131,6 per cento) e nel 2018 (al 130 per cento), per poi scendere più rapidamente (al 127,1 per cento nel 2019 e al 123,9 nel 2020). Ma nonostante questa progressione, la regola del debito di Bruxelles non viene rispettata: il prossimo anno la tendenza dei tassi è al rialzo e saranno i dodici mesi in cui prenderà corpo la nuova governance europea che potrebbe riservarci sorprese se prevalessero le ipotesi tedesche di riduzione dei rischi su banche e debito.