la Repubblica, 15 novembre 2017
Cronache del ghiaccio e del fuoco. Intervista a Roberto Casati
C’è una lezione che viene dal freddo. Non sarà facile convincere chi è abituato ad associare il “grande freddo” a una passione spenta o alle asprezze ideologiche del lungo dopoguerra. Ma dopo aver letto il manuale di sopravvivenza di Roberto Casati, un filosofo cognitivista che con la famiglia ha vissuto cinque mesi nelle nevi del New Hampshire, ci si potrà ricredere. Perché l’esperienza quotidiana del freddo significa “attenzione”. Significa “gentilezza”. E significa anche una vita integra, non divisa a metà. E allora la metafora di “un cuore in inverno” – il gelo sentimentale evocato dal film di Sautet – è destinata a capovolgersi nelle sorprendenti pagine di Casati, che avendo studiato il funzionamento della mente ha una qualche titolarità nel guidare lo spostamento percettivo. E da eccentrico diario di viaggio dalle sponde ghiacciate del Connecticut River – tra motoseghe, sputaneve, igloo e le mille insidie che possono nascere a svariati gradi sotto zero – il suo La lezione del freddo (Einaudi) diventa una sorta di breviario filosofico, un libro di meditazione nel solco tracciato dai vecchi moralisti francesi. Perché «non c’è niente di più normativo e di più etico del paesaggio invernale che in condizioni estreme impone una scelta», dice lo studioso, abituato a misurarsi nelle sue ricerche con le ombre e con il disorientamento. Vivere è scegliere, ma nella neve il dilemma può diventare drammatico.
Professor Casati, qual è la prima lezione del freddo?
«Il freddo ti stimola l’attenzione, una concentrazione che diventa necessaria per interpretare la natura, per capire le tracce sulla neve, per scegliere il legno più adatto a riscaldare. Parto dall’attenzione perché è il principale oggetto dei miei studi. Non sappiamo cosa sia, ma sappiamo che è una risorsa limitata».
E in una situazione estrema si protegge meglio?
«Una natura impegnativa esige una vigilanza continua, anche perché volgere altrove la mente potrebbe avere costi troppo alti. È interessante osservare come cambia l’attenzione in ambienti differenti: in una cornice artificiale come il mio ufficio all’École Normale Supérieure di Parigi si vive in una condizione di costante dispersione in cui è difficile tenere il filo, mentre in contesti apparentemente più essenziali come il mare tra nuvole e onde o un bosco di betulle innevate la natura impone una concentrazione assoluta: sono ambienti che non perdonano la distrazione».
Sul piano cognitivo cosa cambia?
«Prima che sul piano cognitivo mi chiederei cosa cambia sul piano esistenziale. Una vita distratta è una vita a metà».
Ma questa attenzione vigile in una natura così insidiosa implica un’idea di lotta costante: si sta sempre sul chi vive.
«Certo, ma non c’è solo questo. Il freddo rende gentili le persone. Me lo fece notare un conoscente che vive a Buffalo, nello stato di New York. La neve che rotola dal cielo per giorni e giorni crea inattese solidarietà, ci si invita nelle case, si fa la spesa gli uni per gli altri, c’è chi si occupa dell’inglese dei tuoi figli. Il vero social network è quello che ho conosciuto nel New Hampshire. Il freddo è un potere assoluto a cui si reagisce riponendo fiducia nel prossimo».
Ci si abitua a questo potere assoluto?«Sì, anche se la cosa mi ha sorpreso. Il gelo impone un lavoro su se stessi, sul proprio corpo: quindi occorre esporsi con cautela, indossare vestiti meno confortevoli del previsto. Assumere molte calorie. Alla fine si acquisisce una nuova consapevolezza di sé e della propria capacità di resistenza. È come se il freddo facesse rintanare la coscienza in fondo al corpo, trasformando il fisico in puro strumento di difesa. Quando camminavo nel gelo avevo la costante sensazione di essere dentro la cabina di comando di un trattore: ma quella cabina di comando era il mio corpo. E ne traevo una sensazione di calore».
In che modo questa esperienza l’ha cambiata?
«Ora non posso vivere se non trascorro una parte del giorno all’aperto, anche in un parco. Nei mesi passati nel New Hampshire il richiamo è stato irresistibile: la bellezza del freddo non ha eguali. Mi sembra che stiamo andando in una direzione opposta dove il fascino del paesaggio naturale è affidato alle immagini che scorrono sul tablet piuttosto che all’esperienza diretta. La natura è diventata una promessa destinata a restare incompiuta».
Lei scrive che con il freddo ha modificato anche il suo modo di pensare. Che significa?
«In un paesaggio innevato è tutto così fermo e immobile che per poter cogliere i cambiamenti bisogna velocizzare la coscienza. E allora ho cominciato a pensare in time lapse: i miei pensieri sono istantanee che acquistano senso solo nella sequenza lunga delle settimane. La lentezza di un paesaggio freddo è quasi inconcepibile per noi: per questo bisogna correre con l’immaginazione».
Attenzione, generosità, lentezza. È come se lei avesse trasformato il freddo nella metafora di un tempo perduto. Non a caso evoca la minaccia del riscaldamento globale che rischia di mettere fine ai nostri inverni.
«La mia madeleine di Proust è stato il freddo dell’infanzia, nella pianura padana. Mia nonna cucinava su una stufa gigantesca, e il costo del riscaldamento era anche andare in giardino a riempire un secchio di carbone. Oggi per riscaldarci ci limitiamo a girare il termostato. Nel New Hampshire circola un bellissimo proverbio: la legna scalda due volte, quando la tagli e quando la bruci. La nostalgia del freddo è quella per una vita in cui si ha una nozione molto più chiara di quanto ci costa quel che stiamo facendo. Una vita più vicina a noi stessi».
Il suo racconto è costellato di quesiti morali. Viene in mente un bellissimo film svedese, “Forza maggiore”: una valanga mostra la codardia del capofamiglia che scappa invece di proteggere i figli. Ancora una volta è la neve a metterti moralmente a nudo.
«Quello invernale è un paesaggio molto normativo e molto moralizzato. Ci sono vincoli ovunque. È la natura a dirti continuamente cosa devi o non devi fare: se non obbedisci, le conseguenze possono essere drammatiche, sia per te che per gli altri. Ed è forse questa la lezione del freddo più profonda sul piano morale: sulla neve è vietato lasciare tracce che portino gli altri fuori strada. Vale nei boschi tra le White Mountains ma vale anche nella vita quotidiana».