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 2017  novembre 15 Mercoledì calendario

Come ci cureremo. Ricerca e politiche sanitarie: gli scenari dei prossimi 20 anni secondo l’epidemiologo Elio Riboli

Colera, peste, tubercolosi: erano le principali cause di morte, fino a un secolo fa. Oggi nelle società occidentali le malattie infettive esistono ancora, ma di rado sono fatali. A fare paura sono altre minacce: le patologie cardiovascolari, i tumori, il diabete, l’Alzheimer. Condizioni di natura cronica e degenerativa che spesso maturano a partire da più fattori di rischio: ipertensione, fumo, obesità, sedentarietà e scarso consumo di frutta e verdura. È da qui che nasce l’appello di Elio Riboli, docente di igiene generale e applicata all’Humanitas University, dov’è approdato dopo 12 anni alla direzione della scuola di sanità pubblica dell’Imperial College di Londra. «Un Paese moderno deve adeguarsi ai bisogni di protezione della salute che evolvono nel tempo», ha spiegato ieri all’inaugurazione del campus della quarta facoltà di medicina di Milano, di fronte al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
L’Italia a che punto è di questa transizione decisiva?
«Il quadro è comune ai Paesi sviluppati: di pari passo all’aumento dell’età media si registra l’aumento di incidenza di condizioni quali il diabete e l’obesità. Il combinato disposto di questi due aspetti ci permette di scattare in anticipo una fotografia del Paese che verrà: più longevo, ma più malato. Il diabete è l’emblema dell’evoluzione in atto: si tratta di una malattia a sé stante, ma di un fattore di rischio che determina all’incirca la metà delle nuove diagnosi di cancro».
Come si arriva, allora, in buona salute a 70 anni?
«Dipende dagli stili di vita che seguiamo a partire dalla prima fase dell’età adulta: cioè da cosa mangiamo, da quanto movimento facciamo e da quanto pesiamo. Chi arriva sano ai 40 anni ha il 95% di probabilità di superare la soglia dei 70. Ciò vuol dire che gli stili di vita hanno spesso un impatto più rilevante rispetto alla genetica. Ma il problema è rappresentato dalla quota crescente di chi s’ammala prima: mettendo a repentaglio la propria vita e la sostenibilità di un sistema sanitario che può ritrovarsi ad assistere un paziente anche per più di quattro decenni».
In che modo si fa fronte a queste nuove emergenze?
«L’incidenza di fattori di rischio è in aumento: penso all’ipertensione, all’obesità e, appunto, al diabete. Ma viviamo comunque in una nazione abbastanza longeva, il che rappresenta una buona base di partenza in vista del futuro. L’aumento dell’età media è il più grande successo della medicina, che permette di considerare diversi decenni di vita per ogni persona sana, a partire dal termine della sua carriera professionale. D’ora in avanti, per migliorare i risultati già ottenuti, occorre indirizzare la ricerca lungo un binario multiforme».
Quali saranno gli elementi in gioco nei prossimi 20 anni?
«Sappiamo quale ruolo abbiano l’inquinamento, il fumo di sigaretta e l’obesità nell’insorgenza di diversi tumori. Ora bisogna compiere un salto di qualità, trasformando il bagaglio di conoscenze di cui disponiamo in concrete politiche di sanità pubblica. L’operazione sarà possibile se combineremo i grandi studi di popolazione con le ricerche nel campo della genomica e, in modo più esteso, nella medicina di precisione. Così osserveremo l’evoluzione delle malattie a livello di popolazione e risponderemo colpo su colpo: con diagnosi e terapie sempre più sagomate su ogni paziente».
Ma in Italia la ricerca si porta avanti con fondi troppo esigui e gli studi epidemiologi non rappresentano una priorità per le case farmaceutiche: è possibile rimediare?
«Gli studi epidemiologici devono essere una prerogativa delle università e dei centri di ricerca. Il sostegno può arrivare dai fondi nazionali, purché la distribuzione avvenga su base competitiva e non a pioggia. Meglio si lavora, maggiori sono le risorse di cui si dispone: così è più facile attirare anche gli investimenti dei privati».
Come tradurre nella pratica le conoscenze mediche?
«È la società che deve fare uno sforzo per incentivare il consumo di alimenti più salutari, rivedere i sussidi alla produzione agricola e incentivare il trasporto sostenibile e l’attività fisica. La prevenzione primaria non è questione medica, ma sociale. Smontiamo l’idea che, siccome si vive una volta sola, si possa mangiare, consumare alcolici e fumare senza porsi dei limiti. La vita da ammalati è di una noia mortale».