la Repubblica, 15 novembre 2017
Vita e morte da romanzo per l’ultimo dei principi nel castello dei misteri
BANGKOK La storia di Alì Raza, o principe Cyrus, sembra uscire da un romanzo gotico se non fosse ambientata nei boschi di New Delhi a ridosso del moderno quartiere delle ambasciate di Chanakyapuri. Solo nei giorni scorsi è trapelata la notizia del decesso di questo ultimo erede della dinastia indiana di Nawaz o ex regnanti di Oudh nell’attuale Uttar Pradesh, avvenuto in realtà ai primi di settembre. Per tre giorni il suo corpo era rimasto a terra sotto le ampie arcate aperte alle intemperie di una residenza reale di caccia del XIV secolo chiamata Malcha Mahal, dove il principe aveva vissuto dalla metà degli anni ’80 con madre, sorella, 12 cani labrador e 6 servitori nepalesi in livrea finché uno alla volta erano stati licenziati o erano morti.
Secondo un guardiano che era uno dei pochi esseri umani ammessi oltre il recinto di filo spinato con su scritto “State lontani, si spara a vista”, il principe giaceva su uno dei numersi tappeti persiani unico arredo nel grottesco rudere nobiliare dagli alti soffitti abitati dai pipistrelli e infradiciti dalla pioggia, tra ampi saloni senza porte e finestre, riverso ai piedi di una panca di legno scuro. Su un tavolo ricoperto di foglie portate dal vento il cibo di un misero pasto mai consumato. La sua fine rievoca il clima di mistero e tragedia che circonda la storia della famiglia e della residenza secolare nascosta tra piante di rovi e rampicanti lungo la Sardar Patel Marg. Qui si suicidò 15 anni fa la madre del principe, Sua altezza Begum Wilayat Mahal, presunta pronipote del Nawab di origine persiana Wajid Ali Shah, celebre più come danzatore e artista che come ultimo sovrano di Oudh e Awadh, «un uomo fiaccato da una vita debosciata», scrissero di lui gli inglesi.
Secondo una delle interviste concesse dal principe Alì, sua madre Begum ingoiò a 62 anni una bevanda mischiata alla polvere dei diamanti di un’antica collana di famiglia. Noblesse oblige. Fece scalpore il fatto che Alì e sua sorella, la principessa Sakina (un terzo fratello si dice morto giovane di “tristezza e depressione”) dormirono per diverse settimane vicino al corpo senza avvertire nessuno. Su ordine delle guardie seppellirono la nobildonna nel giardino, lasciandole indosso tutti i suoi gioielli, salvo riprenderseli e venderli per sopravvivere dopo che qualche ladro aveva cercato di depredare la tomba. Begum era divenuta celebre quando negli anni ’70 si installò per protesta con figli, servitori e cani feroci nella sala d’aspetto per Vip della stazione di Delhi, da lei arredata con antichi tappeti e candelieri. Begum visse così per anni giurando che non se ne sarebbe andata senza una degna compensazione per i beni di famiglia secondo lei illegittimamente tolti dagli inglesi e poi dallo Stato indiano ai suoi antenati. Ma pur di liberare la sala della stazione, Indira Gandhi le concesse la casa di Delhi, senza acqua corrente né luce elettrica. Qui riceveva sempre più rari ospiti, finché il suo nome cadde nell’oblìo. Dopo la sua morte e quella della figlia, avvenuta alcuni mesi fa forse per cause naturali, il principe Alì smise di recarsi anche in moschea ed evitò sempre di più la vicinanza degli altri, se non per elemosinare un po’ di cibo. Un giorno prese a sassate un lampione che in una strada vicina attraeva gruppi di ragazzi in ozio, e visse al buio rischiarato solo da lumi a olio davanti al ritratto della madre e fuochi accesi per cucinare il suo magro pasto. Tra i pochi averi catalogati alla morte, c’erano porcellane scrostate, tappeti sporchi, riviste inglesi, una spada corrosa.