la Repubblica, 15 novembre 2017
Gary Oldman: «Ho capito tutto dai suoi graffi»
Los Angeles «Questa storia dimostra in maniera lampante come le parole possano cambiare il mondo. Soprattutto se pronunciate dai politici... Churchill conosceva perfettamente il peso delle parole, questa è la sua grandezza». Gary Oldman, 59 anni, è diventato Winston Churchill per L’ora più buia, diretto da Joe Wright, in sala dal 18 gennaio e in anteprima al Torino Film Festival. 1940, gli alleati capitolano agli attacchi della Germania nazista, 300mila soldati britannici si ritrovano stritolati a Dunkirk. Il neo primo ministro Churchill deve affrontare il supremo dilemma: negoziare un trattato di pace con Hitler o combattere fino alla fine, contro ogni ostacolo e previsione? È qui che troviamo il Churchill di Oldman: nell’ora più buia.
Oldman, che rapporto ha con la figura storica di Churchill?
«Da buon inglese sono cresciuto riverendo Churchill. Una figura storica incomparabile. Un uomo che ha scritto 50 libri, più di Shakespeare e Dickens messi insieme, Nobel per la letteratura, pittore con oltre 16 mostre personali e più posizioni politiche di chiunque altro. Per me, nato nel 1958, Churchill era “l’uomo che ha vinto la guerra”. Così imparammo all’asilo. Mio padre combatté con la Royal Navy nella battaglia di Okinawa. Quindi per forza sento quel forte legame».
Nel film mostra anche un lato tenero di Churchill. Era così?
«Certo. Quando piange in metropolitana. Si commuoveva facilmente alla vista di gente che soffriva. Churchill si recava spesso nelle aree di Londra che erano state bombardate, sentiva il dolore, capiva le persone. Churchill era anche buffo, aveva senso dell’umorismo, e sapeva come promuovere se stesso. Fece di se stesso una sorta di “brand”, di marchio. In questo senso fu anche un visionario».
Come si è preparato al ruolo?
«Di materiale d’archivio ce n’è tantissimo, ho visto tutto e letto tutto. La responsabilità di dar volto a un personaggio così immenso era tale che all’inizio ho rifiutato l’offerta. Sono già insicuro di carattere, ma qui ero terrorizzato. Penso sempre che se fossi il regista sceglierei chiunque tranne me. Ma poi mia moglie e un amico produttore mi hanno fatto capire che non era un’occasione che potevo lasciarmi sfuggire. E così ho chiuso gli occhi e ho cercato di immaginare Churchill senza farmi influenzare da tutti gli altri attori che lo hanno interpretato prima di me».
Qual è stato il dettaglio chiave per la sua interpretazione?
«Tanti dettagli. Ho avuto la fortuna di visitare i luoghi in cui Churchill si recò nel corso degli eventi descritti nel film, e questo mi ha aiutato. Downing Street e la sua “War Room”. Mi hanno dato il permesso di sedermi sulla sua poltrona, e ho potuto osservarne bene i braccioli: sul sinistro c’erano graffi delle sue unghie, e su quello di destra c’erano i graffi dei suoi anelli. Minuzie che dicono molto del suo enorme stress: aveva 300.000 uomini a Dunkirk, in Francia. Hitler aveva un’armata di cinque milioni di soldati. Che fare? Mi è bastato studiare quei braccioli per capire l’angoscia del dilemma che Churchill stava vivendo. Perché era un uomo di grande rigore etico».
A proposito di etica: cosa pensa degli scandali che sta vivendo Hollywood?
«Il mondo è sempre stato moralmente imperfetto e Hollywood non è un’eccezione. Le cose però stanno cambiando. Stiamo vivendo un momento epocale, uno scisma, un sisma. Era ora che gli scheletri venissero scaraventati fuori dall’armadio. Non voglio fare il neopuritano, ma un po’ di controllo sui comportamenti di chi riveste ruoli di potere ci vuole eccome».
Lei ha lavorato con quasi tutti a Hollywood. Ha mai incontrato Harvey Weinstein?
«Sì, nel 1992, e confesso che non mi era piaciuto per niente, e mi rifiutai di lavorare con, o meglio, “per” lui. Non ho mai fatto parte di quel mondo. Annusavo aria strana... Avevo sentito storie da registi a cui Weinstein aveva sottratto film, oppure rimontati, tagliati, non distribuiti, così, per capriccio. Un dittatore. C’è voluto molto coraggio, da parte di quelle donne, a dire la verità. Non è mai facile mettere la faccia contro un establishment autoritario e prepotente».