ItaliaOggi, 15 novembre 2017
Un motto di Einstein si applica alla Ue di oggi: «La follia consiste nel continuare a fare la stessa cosa sperando che il risultato cambi»
Nessuno, in Europa, si sente davvero rappresentato dai partiti cosiddetti «populisti». Questi avanzano col vento in poppa, come vascelli pirata, fin quasi nel porto della città da saccheggiare, ma all’ultimo momento le loro vele si sgonfiano e, immobili al centro della baia, le navi corsare vengono colpite e affondate dalle cannonate dei difensori delle isole prese d’assalto. In Europa è successo praticamente ovunque, ma non in Inghilterra, dove la Brexit ha vinto a dispetto dei pronostici, del malocchio e degli anatemi. Anche in Ighilterra, come in Francia e in Germania e presto (speriamo) anche in Italia, il «populismo» è uscito di scena, ma prima di farlo ha messo a ferro e fuoco la cittadella nemica e dietro di sé ha lasciato l’Europa delle élites in rovina.
Nessuno se l’aspettava, e soltanto pochi se lo auguravano, tra cui il futuro presidente Donald Trump, ma era accaduto. A dispetto delle «élites inclini al panico», avrebbe poi scritto lo storico Niall Ferguson, il popolo inglese (che voleva far pesare le proprie opinioni sull’emigrazione e poter decidere la politica fiscale) aveva parlato forte e chiaro: le altre azioni europee «sono pronte ad accettare un’egemonia tedesca, ma noi no». Pochi mesi più tardi Donald Trump, un altro «populista», vinceva la partita elettorale negli Stati Uniti. Anche qui le élites si sono rivelate «inclini al panico» e, come chi in Inghilterra vorrebbe indire un secondo referendum sull’adesione all’Europa per cancellare gli esiti del primo, l’intero partito democratico e mezzo partito repubblicano strepitano e si sbracciano da più d’un anno per abrogare il risultato delle elezioni presidenziali del novembre scorso (anche se «l’aspetto che colpisce di più di questa demonizzazione», scrivono Michael Doran e Peter Rough, «è il suo costante fallimento elettorale»).
Sembra una guerra ideologica tra progressisti e reazionari, tra nazionalisti e globalisti, tra lettori di tabloid e abbonati ai giornaloni, ma in realtà è molto più semplicemente lotta di classe: le élites cosmopolite da una parte, la gente comune dall’altra. Di qua chi ha un reddito medio o basso, abita nelle periferie e vive nell’incubo dell’islamizzazione; di là chi ha un reddito elevato, vive nei quartieri alti (dove gl’immigrati non provocano traumi culturali ma servono il tè alle cinque del pomeriggio) e chiama «fascisti» e xenofobi gli abitanti delle periferie. È una scena che in Europa si è già vista altre volte: aristocratici contro plebei, parrucche incipriate contro coccarde tricolori, operai contro padroni.
C’è questo dentro, dietro e intorno alla Brexit, come raccontano Daniele Capezzone e Federico Punzi in un libro acuto e avvincente: Brexit. la sfida. Dove un gruppo nutrito d’intellettuali europei e americani discute le origini, le ragioni, le conseguenze dell’uscita di Londra dall’Unione. È una discussione sobria, senza traccia di chic, e niente ideologia, ma fatti e analisi ben argomentati. Alcuni, per esempio i curatori del libro, pensano che la Brexit sia non soltanto l’occasione per rilanciare l’economia e il ruolo politico dell’Inghilterra ma anche l’occasione per rifondare l’Ue – oggi Berlinocentrica, dunque burocratica e gerarchica – su basi democratiche e rappresentative.
Altri appaiono meno ottimisti, per esempio il direttore di questo giornale, Pierluigi Magnaschi. David Goodhart, capo del dipartimento Demografia, immigrazione e integrazione del think tank britannico Policy Exchange spiega che cosa sia e come si possa evolvere un populismo alto e consapevole in Europa e nel mondo citando «il sociologo statunitense Daniel Bell», che si definiva «socialdemocratico in economia, liberale in politica e conservatore nelle questioni sociali e culturali». Ma tutti, dal primo all’ultimo, sono d’accordo nel ritenere che «il problema dell’Europa», come scrive Federico Punzi, «non sia il nazionalismo ma lo statalismo, l’invadenza dello stato nella vita dei cittadini, a ogni livello, dalle amministrazioni locali fino a Bruxelles».
In tempi d’élites globaliste, mentre le antiche comunità nazionali minacciano d’estinguersi e l’immigrazione cresce a sventura storica, è bene intendersi sul «nazionalismo». A spaventare il «liberal globalista» è il ricordo del nazionalismo hitleriano e fascista, o del nazionalismo staliniano travestito da internazionalismo in un paese solo. Ma questo nazionalismo aveva al suo centro proprio il centralismo, l’invadenza burocratica e il disprezzo per la democrazia formale che oggi i globalisti perseguono con ogni mezzo e che i pretesi «nazionalisti» invece avversano. Roberto Caporale cita Albert Einstein: «La follia consiste nel continuare a fare sempre la stessa cosa sperando che il risultato cambi».