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 2017  novembre 13 Lunedì calendario

Saccomanni il sobrio humour e tecnica per affiancare il soldato Mustier

È difficile immaginare, almeno alle apparenze, due personaggi così antropologicamente differenti come Jean Pierre Mustier e Fabrizio Saccomanni. Segaligno e gelido il primo, il francese che è amministratore delegato di Unicredit. Pacioso e bonario il secondo, il romano che dello stesso Unicredit è diventato consigliere d’amministrazione la settimana scorsa al posto di Fabrizio Palenzona e sarà acclamato presidente per un quadriennio in occasione dell’assemblea ordinaria del prossimo aprile. Eppure la fisiognomica non deve ingannare. Il maratoneta di ferro Mustier (in senso letterale perché faceva la tremenda gara di triathlon che si chiama Ironman ), l’ex legionario straniero accompagnato da una fama di duro pare non troppo immeritata, è destinato a integrarsi alla perfezione con il navigatissimo e diplomaticissimo banchiere, economista e politico (anche se a lui quest’ultima parola fa venire l’orticaria), abituato a muoversi con la stessa disinvoltura nelle riunioni del Fondo Monetario a Washington e negli inquietanti corridoi dei palazzi del potere romano. Il tutto senza perdere quel sobrio disincanto che una volta fece affermare a Jean-Claude Trichet, allora presidente della Bce: «Saccomanni è l’unica persona che conosco che possiede un talento innato di esprimere concetti profondi con eloquenza italiana e senso dello humour britannico». Del resto, Saccomanni sembra fatto apposta, anzi è probabilmente uno dei pochi candidati ideali, per coincidere con i nuovi rigidi standard imposti dalla Bce per i presidenti delle banche “di sistema globale” come Unicredit (unico istituto italiano ammesso in questo Gotha di 27 banche): ampia esperienza internazionale, stima integerrima presso tutti gli ambienti finanziari, conoscenza dall’interno dei meccanismi degli istituti di credito, dei governi e delle banche centrali. Sembra misurato col pennello, come direbbe il Belli che è il suo poeta preferito (lui stesso scrive sonetti in romanesco), che aggiungerebbe: ha un curriculum da paura. Vediamolo. Nato a Roma nel novembre 1942, laureato alla Bocconi di Milano, entra in Banca d’Italia per concorso nel 1967, con Guido Carli governatore, divisione “banking supervision”. Vi resta fino al 1970 quando, sempre nell’organico della Banca, passa quale economista al Fmi di Washington dove rimane cinque anni. Quindi rientra in via Nazionale come capo della sezione internazionale del dipartimento di ricerca fino al 1983, quindi fino al 2003 è capo dell’ufficio Esteri.Sono gli anni cruciali della fine del Sistema monetario europeo e della nascita dell’euro alla quale Sarcinelli partecipa attivamente al fianco di figure come Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa, suo compagno “di classe” alla Bocconi, riuscendo a mantenere l’Italia in “serie A”. Dopodiché, dal febbraio 2003 al settembre 2006 è a Londra quale vice presidente dell’European Bank for Reconstruction and Development, fondata qualche anno prima da Mario Sarcinelli, altro prestigioso economista di scuola Bankitalia. Proprio nel posto che era stato di Sarcinelli, quello di direttore generale, Saccomanni fa il suo ingresso il 20 ottobre 2006. Resterà quasi sette anni nella carica che più di ogni altra ha contribuito a consolidare il suo standing internazionale, e su scala nazionale la sua fama di signorilità: era stato a un passo dalla nomina a governatore nel 2011 quando venne scavalcato sul filo di lana dal capo ufficio studi Ignazio Visco, che aveva lavorato in tempi lontani con lui all’ufficio esteri. Non un aggrottamento di ciglia, solo l’offerta di piena e totale collaborazione al suo ex collaboratore, sempre con il suo atteggiamento gioviale e sincero. Saccomanni rimane dg di Bankitalia fino all’aprile 2013 quando Enrico Letta, diventato premier, lo nomina ministro dell’Economia. Una posizione importante e scomoda, in un momento in cui l’Italia è ancora un sorvegliato speciale nell’eurozona, sempre sotto il tiro della Commissione e dell’eurogruppo. Ma anche un momento in cui lui, titolare del Tesoro, deve fronteggiare il malcontento popolare per le misure draconiane prese dal precedente governo Monti. Preso fra due fuochi, Saccomanni non ha però neanche il tempo di organizzare le difese: l’incarico infatti dura non più di dieci mesi. Tutto finisce nel febbraio 2014 con la ben nota e “brutale” defenestrazione di Letta da parte di Matteo Renzi: e sarà proprio lui mentre Letta sdegnato e amareggiato si ritira subito in Francia, a prendersi la briga di rispondere punto per punto alle critiche di inoperatività economica che avrebbero, secondo il successore, provocato l’accelerazione del processo di “ostracismo”. «Se sapevo che durava solo dieci mesi non avrei accettato», si sfoga in un’intervista. «Per impostare un lavoro così complicato come quello affidato al ministro dell’Economia servono almeno due anni». Per poi rispondere piccato e documentato alle accuse addirittura di aver diffuso cifre imprecise («i numeri non erano quelli che Letta raccontava», arrivò a dire Renzi). Acqua passata, ma amarezza tanta. A 72 anni, Saccomanni se ne va per la prima volta a fare il docente universitario, alla Luiss e poi a SciencesPo nel dipartimento che proprio Letta dirige. «Ma lo sa che mi sembra così strano sentirmi chiamare professore? Mi viene da girarmi intorno alla ricerca di un professore», disse una volta a un cronista che l’intervistava con l’immancabile ironia. Ma era vero. Approfittò della pausa anche per aggiornare alcuni suoi libri come “Tigri globali, domatori nazionali” (Il Mulino), per tenere conferenze, per partecipare finalmente ai forum internazionali cui viene immancabilmente invitato senza l’assillo di compiti operativi di alta responsabilità – Fondo Monetario, Cernobbio, Davos – dove ha potuto dire con serenità a proposito dell’origine della crisi finanziaria che «affidarsi alle agenzie di rating era come farsi dire che la carne fa bene dal macellaio». Proprio in una di queste occasioni avviene l’incontro fatale che doveva portare alla sua seconda insperata giovinezza, quello con l’algido Mustier. Con il quale in verità ha molto più in comune di quanto possa sembrare: intanto la passione per la musica classica, masoprattutto un’uguale visione del concetto di rigore. Ancora all’ultimo Cernobbio, due mesi fa, Saccomanni raccomandava di non farsi prendere da eccessivi entusiasmi, ora che in Italia la situazione è migliorata, e infatti il suo successore e grande ammiratore Pier Carlo Padoan ha debuttato proprio al forum Ambrosetti con la formula del “sentiero stretto” che è diventata una linea-guida dell’azione di governo. Certo, quello che Saccomanni raccomanda non è un rigore cieco, lui che si è formato alla scuola di specializzazione di Princeton, quella di Bernanke e Krugman per intendersi, insomma la più keynesiana che ci sia, e in Bankitalia era noto come “il più conservatore della corrente di sinistra”. La sua designazione alla presidenza di Unicredit non è figlia dell’infatuazione per lui di Mustier, intendiamoci, né, come ancora più male lingue insinuano di un intervento di Mario Draghi, di cui è stato dg in Bankitalia ed è rimasto in stretti rapporti perfino fisici: la casa romana di Draghi è a pochi metri dalla sua, in viale Bruno Buozzi. Non è possibile per la semplice ragione che le già citate linee guida della Bce per la nomina del presidente di una banca così importante, la prima in Italia per asset e sicuramente la più internazionale visto che ha il 50% delle attività all’estero, prevedono l’identificazione del candidato ideale da parte di ben due società di head hunting, poi un severo scrutinio presso il comitato nomine della banca (in cui Mustier interviene solo in una seconda fase), infine l’attento esame del board. Certo, la sua candidatura era apparsa fin dall’inizio la più forte, pur senza nulla togliere alla validità degli altri pretendenti (Cribiori, Castellaneta, Tononi, Salvatori), a ognuno dei quali però mancava un “quid”. Con Saccomanni invece tutte le caselle erano segnate.