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 2017  novembre 13 Lunedì calendario

Affari, potere e religione la rivoluzione d’Arabia tra arresti e fuga di capitali

Una città futuristica da costruire da zero per un valore complessivo di 500 miliardi di dollari. Un fondo di investimento sovrano, il Pif, destinato a raddoppiare il valore dei suoi asset fino a 400 miliardi di dollari entro il 2020 per arrivare a duemila miliardi di dollari nel 2030. Milioni di dollari da raccogliere sul mercato nel giro di pochi mesi grazie alla privatizzazione di autostrade, ferrovie ed aeroporti. <p>dalla nostra inviata a Riad segue dalla prima S ullo sfondo di tutto, la più grande Ipo della storia, quella di Saudi Aramco, che nel 2018 porterà in Borsa il 5 per cento della società petrolifera più grande del mondo. Fino a due settimane fa quella dell’Arabia Saudita post-petrolifera di Mohammed Bin Salman sembrava una favola destinata al lieto fine. Per presentarla, il potente principe ereditario aveva convocato a Riad 3500 fra politici, banchieri e gestori di fondi di investimento più importanti del mondo, in un vertice subito ribattezzato “la Davos nel deserto”. Ma la storia del Paese che si re-inventa da zero sotto la guida di un principe giovane (32 anni) e modernizzatore non è durata a lungo. A farla sbriciolare ci ha pensato intorno alla mezzanotte di sabato 4 novembre una retata che, con una mossa senza precedenti nella storia del regno, ha portato in prigione 11 principi reali, quattro ministri (fra cui quello dell’Economia) e i fondatori e amministratori delegati di alcuni dei principali gruppi del Paese, dal settore delle costruzioni a quello della televisione e dell’intrattenimento. Alla prima ondata di arresti ne sono presto seguite altre: nel giro di pochi giorni, nelle mani dell’autorità giudiziaria sono finite più di 200 persone, a vario titolo accusate di aver sottratto al governo più di 100 miliardi di dollari negli ultimi due decenni. 800 miliardi di dollari in asset bancari e finanziari potrebbero finire confiscati, secondo il Wall Street Journal. Ufficialmente l’accusa contestata agli arrestati è corruzione, ma a nessuno è sfuggito il vero senso della manovra: sgomberare la strada per l’ascesa al trono di MBS, come viene chiamato a Riad, togliendo dal palcoscenico i rivali più ingombranti dal punto di vista politico, come il cugino Mutaib bin Abdallah, o di immagine: ed è il caso di Waleed Bin Talal, il multimiliardario che con le sue partecipazioni in Twitter, Citigroup e News Corp. è stato per decenni il volto della finanza saudita nel mondo. Se a tutto questo si aggiungono le dimissioni del primo ministro libanese Saad Hariri, volute da Riad, e lo scambio di accuse con l’Iran seguito al lancio di un missile su territorio saudita, la fine del clima di fiducia che pareva essersi creato intorno all’Arabia Saudita è facilmente spiegabile. «Nelle ore immediatamente successive agli arresti decine di milioni di dollari sono usciti dai mercati del Medio Oriente – spiega uno dei gestori dei principali fondi di investimento attivi nell’area, che accetta di parlare a condizione di restare anonimo – questa mossa ha dimostrato che l’Arabia Saudita è ancora ben lontana dall’essere il Paese stabile e trasparente che il principe voleva presentare al mondo. A ciò va aggiunta la paura di un’ondata di tensione e di violenza che potrebbe andare ben oltre i confini sauditi». Le parole dell’investitore centrano in pieno la questione: se dal punto di vista interno la retata ha messo in discussione la bontà delle promesse di riforma, la contemporanea levata di scudi contro l’Iran ha dimostrato che la posta in palio nella partita di Mohammed Bin Salman non è soltanto nazionale. A 32 anni, e con il mano un portafoglio che comprende il ministero della Difesa, quello delle Riforme e il controllo di Aramco, l’ambizioso principe ereditario punta ad affermare il dominio saudita su tutta la regione a scapito dell’odiato Iran: una partita che è sì politica e religiosa (Riad è il campione del sunnismo, Teheran dello sciismo), ma anche economica. In ballo c’è il destino del mercato del petrolio, di cui i contendenti sono fra i maggiori produttori mondiali. Di quello del gas, il cui grande protagonista, il Qatar, è ostaggio e preda nello scontro. Ma anche il ritorno dell’Iran sulla grande scena degli investimenti mondiali dopo la fine delle sanzioni legate alla questione nucleare. Sullo sfondo c’è la privatizzazione di Aramco, la più grande operazione borsistica della Storia. Chi si arrischierebbe a scommettere su un Paese dove i venti di guerra che coinvolgano Teheran, Doha, Sana’a a Beirut paiono spirare fortissimi? E la cui stabilità politica è tutt’altro che assodata? «Nessuno. Almeno nel breve periodo – risponde Jim Krane, fellow for Energy Studies alla Rice University di Houston, uno dei più attenti osservatori del mercato petrolifero del Golfo – dopo tante promesse di trasparenza e apertura un comportamento del genere è giudicato incongruo. Inoltre c’è da aspettarsi che questa stretta blocchi l’inclusione dell’Arabia Saudita nell’indice MSCI dei mercati emergenti, cosa che avrebbe portato in automatico miliardi di dollari di investimenti dei fondi verso il regno». Più difficili da prevedere le conseguenze sull’Ipo di Aramco, che non avverrà prima di un anno: negli ultimi giorni la tensione regionale ha spinto in alto il prezzo del petrolio, facendogli superare i 64 dollari al barile e quindi teoricamente reso più appetibile l’operazione. Ma non è detto che il rialzo durerà a lungo. A Riad sui tempi dell’operazione non sembrano esserci dubbi: «Abbiamo detto 2018, sarà 2018», ha risposto secca qualche giorno fa una fonte della Corte reale interrogata in materia. Resta da sciogliere il nodo del mercato prescelto. Nel braccio di ferro fra Londra, New York e Singapore poche ore prima dell’ondata di arresti che ha sconvolto il regno è entrato a gamba tesa il presidente americano Donald Trump: «Apprezzerei molto che i sauditi scegliessero Wall Street per l’Ipo di Aramco. Sarebbe importante per gli Stati Uniti!», ha twittato, accendendo le speculazioni di chi pensa che la Casa Bianca fosse al corrente di ciò che stava per accadere e avesse concesso ai sauditi luce verde in cambio dell’Ipo. Il totale appoggio di cui Mohammed Bin Salman sembra godere alla Casa Bianca è uno degli elementi che preoccupano di più gli analisti più attenti a quello che accade nel regno, da Madawi Al Rasheed a Bruce Riedel. Entrambi nei giorni scorsi hanno messo in guardia dal rischio che un rapporto troppo stretto con gli Usa (e in particolare con Jared Kushner, genero di Trump) possa far sentire il principe garantito in ogni sua mossa: comprese quelle bellicose verso l’Iran. A questo va aggiunto il fatto che nei prossimi mesi il regno vivrà un appuntamento cruciale, con l’introduzione per la prima volta nella sua storia di una serie di tasse. E che le retate anti- corruzione potrebbero far salire la tensione interna, anziché placarla: «Finora la famiglia reale si era sempre mostrata compatta. Per anni ci siamo sentiti dire che quando nel muro ci fosse stata una crepa tutto si sarebbe sbriciolato: ora la crepa è arrivata, e anche molto grossa. Nessuno sa cosa potrà accadere», spiega uno degli uomini che lavorano alla quotazione di Aramco. Per questo, anche le grandi banche d’affari che per mesi si sono contese una fetta della grande torta dell’Ipo – da JP-Morgan Chase a Morgan Stanley fino a Hsbc – negli ultimi giorni sembrano aver adottato un atteggiamento più prudente nei confronti dell’Arabia Saudita. La favola del regno dorato e del suo principe ha ancora molte pagine da scrivere prima di arrivare al suo “e vissero tutti felici e contenti”. Gli indicatori economici sauditi e quelli di rischio calcolati dalla Sace.