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 1978  gennaio 01 Domenica calendario

Il destino abitava in via Fani

Aldo Moro fu rapito la mattina del 16 marzo, in via Fani. Stava andando in Parlamento dove il presidente del Consiglio Andreotti si accingeva a presentare il suo governo con i comunisti nella maggioranza. Le Br bloccarono la macchina di Moro, uccisero i cinque uomini della scorta, caricarono lo statista sulla loro auto, fuggirono.
Da quel momento, di Moro si seppe solo quello che raccontavano i comunicati con la stella a cinque punte e le sue lettere. Giunsero anche due sue fotografie: lo ritraevano di faccia, col drappo brigatista alle spalle. Nella seconda di queste foto Moro teneva in mano una copia della Repubblica. Il 9 maggio il suo cadavere fu ritrovato in via Caetani, a mezza strada tra la sede della Dc e quella del Pci, rattrappito nel portabagagli di una Renault rossa.
Il caso Moro condiziona così fortemente il nostro ricordo del 1978 che quell’anno nient’altro sembra essere accaduto. Lo stesso paese – a partire dal 9 maggio – si volle dimenticare tutto: disgusto della politica, riflusso. Alle elezioni scolastiche votarono pochissimi. Proprio nel settore dove più alta era stata negli anni precedenti la partecipazione, si registrò il più massiccio dei «ritorni a casa».  
Nel 1978 morirono due papi, si dimise Leone e al suo posto il Parlamento elesse Pertini, Lama espose la politica dei sacrifici, i comunisti entrarono nella maggioranza, i socialisti sostituirono la falce e il martello con il garofano, in Iran scoppiò la rivoluzione, Begin e Sadat, auspice Carter, firmarono la pace di Camp David.
Il governo con i comunisti nella maggioranza e i liberali all’opposizione era il risultato di più di un anno di trattative tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù. Sul piano internazionale quella soluzione politica dava parecchio fastidio e Carter, a metà gennaio, segnalò con una dichiarazione ufficiale la sua preoccupazione per la piega che stavano prendendo gli avvenimenti in Italia. Invece, conosciuta la lista dei ministri, la delusione più forte si registrò a Botteghe Oscure. Se Moro non fosse stato rapito, forse il governo, con quei ministri, sarebbe durato ancora di meno. Forse Berlinguer non lo avrebbe neanche fatto cominciare.
Il 41° congresso del Psi si svolse tra il 29 marzo e il 2 aprile, proprio durante la prigionia di Moro. È in questo congresso (e in quest’anno) che Craxi consolida la sua posizione nel partito e s’impone come un protagonista della nostra vita politica.
Alleato con Signorile, elimina un pericoloso concorrente interno, Enrico Manca. Poi sostituisce, nel simbolo del partito, il garofano alla falce e martello.
Infine, durante l’estate, rilancia nel nome di Proudhon il dibattito ideologico con il Pci, primo atto di un confronto-scontro che porterà i due partiti della sinistra molto lontano uno dall’altro.
Craxi si qualifica con alcune iniziative che attraversano trasversalmente non solo gli altri partiti, ma soprattutto l’opinione pubblica. È così con la linea trattativista portata avanti durante il sequestro Moro, è così con la presa di posizione sul referendum abrogativo della legge Reale (il Psi era per l’abrogazione), è così anche con la posizione liberista sulle televisioni private espressa in autunno, per bocca di Martelli, al convegno sull’informazione.
Dei due referendum che si svolsero a giugno, voluti dai radicali, il più significativo fu forse quello sul finanziamento pubblico dei partiti. La legge non venne abrogata, ma il fronte del «No» registrò consistenti defezioni. Anche in questo sfaldamento della base elettorale della maggioranza si vide una stanchezza della politica, un altro effetto dell’affare Moro.
L’elezione per il Quirinale testimoniò soprattutto del «potere negativo» dei partiti, i quali si bloccarono per un pezzo l’un l’altro col gioco dei veti incrociati. I democristiani non volevano cedere la presidenza della Repubblica e i comunisti non intendevano votare un democristiano.
A loro volta i socialisti esigevano un candidato laico, ma che non fosse Ugo La Malfa. Il nome di Pertini, sfrondato da ogni significato frontista, sbloccò la situazione in forza del grande prestigio dell’uomo. Nessun presidente, fino a quel momento, aveva ricevuto un numero così alto di suffragi.
L’accordo di Camp David sembrò segnare una svolta nella politica mediorientale. Siglato dopo undici giorni di trattative estenuanti, e proprio quando pareva sul punto di fallire, prevedeva la firma di un trattato di pace entro 90 giorni, il riconoscimento di Israele da parte egiziana, il ritorno del Sinai all’Egitto, l’autonomia della Cisgiordania. Era opinione comune che il vincitore di quella pace fosse Begin: non solo l’accordo non metteva in discussione i due punti-chiave della politica estera israeliana (le frontiere del ’67 e il non riconoscimento dei palestinesi), ma spaccava anche fortemente i paesi arabi.
Nei campionati mondiali in Argentina la nostra nazionale fece una buona figura, arrivando quarta. Alla vigilia i giornalisti diedero parecchio addosso a Bearzot. Invece poi, come capiterà in Spagna nell’82, la squadra giocò a livelli soddisfacenti tanto che dopo, la prima fase eliminatoria, terminata a punteggio pieno, sembrava persino possibile la conquista del titolo. Qui scoppiarono altre polemiche: il nostro commissario tecnico, infatti, a qualificazione già acquisita, fece giocare contro l’Argentina la formazione titolare e quando si trattò di affrontare – al secondo turno – Germania, Austria e Olanda la squadra risultò stanca. Altre polemiche provocò il nostro portiere Zoff, facendosi segnare da lontano sia nella partita contro l’Olanda – decisiva per l’ammissione alla finale – sia in quella contro il Brasile valida per il terzo posto. Ciononostante al loro rientro in patria gli azzurri furono accolti trionfalmente.
Paolo VI morì in agosto e pareva difficile trovargli un successore. Ma i cardinali si misero subito d’accordo sul nome di Albino Luciani, un cardinale di cui alla vigilia nessuno aveva parlato. Aspettando il conclave, i giornali s’erano sbizzarriti a chiedere agli «esperti» quale dovesse essere l’identikit del nuovo papa e Luciani sembrava incarnarlo perfettamente: un pontefice-pastore, che si faceva capire dalla gente e sapeva sorridere, anticonformista alla buona (sembrava), che definiva Dio «madre» e rimproverava i cardinali per averlo eletto. Un nuovo Giovanni XXIII? Non ci fu tempo di saperlo, perché, un mese dopo essere stato eletto, Giovanni Paolo I morì. Di nuovo ci furono dubbi sul suo successore e di nuovo i cardinali, smentendo le previsioni della vigilia, s’accordarono rapidamente sul papa polacco, Karol Wojtyla.
Alla fine dell’anno, dopo le vicende relative all’ingresso dell’Italia nel nuovo sistema monetario europeo (Sme), fu chiaro che la sorte del governo Andreotti era segnata. I comunisti non volevano che l’Italia entrasse nel sistema fino a che non ci fossero state concesse condizioni più favorevoli. Per questo, quando in Parlamento il governo annunciò l’intenzione di entrare subito, i comunisti votarono contro su questo punto, mentre i socialisti si astennero sull’intero documento. Il governo non cadde, ma la crisi era virtualmente aperta.
Duecentocinquanta morti in un solo giorno, crollo nella produzione del petrolio, sciopero totale dei giornali e della televisione. La crisi iraniana raggiunse il suo acme alla fine dell’anno. Il primo ministro Azhari dichiarò il 5 dicembre che l’ayatollah Khomeini, esiliato a Parigi, poteva rientrare in patria. Ma il popolo non si placò per questo e il giorno 10 oltre due milioni di persone sfilarono per le vie della capitale. Il presidente Carter assicurava tutto il suo appoggio a Reza Pahlevi, ma come avrebbe potuto lo scià resistere a una ribellione così vasta, che era allo stesso tempo politica e religiosa? Tutto il mondo guardava a Teheran col fiato sospeso e... Ma questa è già storia del 1979.