La Stampa, 12 novembre 2017
Edmund de Waal: «Nell’argilla bianca c’è la chiave per capire se stessi»
Edmund de Waal è famoso per i suoi libri, «Un’eredità d’avorio e ambra» e «La strada bianca», oltre che per le sue ceramiche. La sua recente mostra a Stoccolma era intitolata «Morandi / de Waal».
Non è insolito che un artista sia anche uno scrittore di best- seller?
«È insolito appassionarsi a entrambe le cose, ma per me non sono molto distanti. Pensare e modellare con le parole e pensare e modellare con l’argilla hanno una genesi simile».
Com’è nato «Un’eredità d’avorio e ambra», un memoir sulla sua famiglia?
«Per capire la mia eredità familiare, quello che mi è stato lasciato e da dove vengo. La chiave sono gli oggetti, perché gli oggetti per me sono importanti. È un libro sulla memoria attraverso il tatto, sull’ossessione e sulla collezione».
Poi ha scritto «La strada bianca» sulla sua arte di ceramista. Perché?
«Un altro tentativo di capire chi sono e perché da quasi 50 anni realizzo recipienti di ceramica bianca. È ridicolo. Un uomo di mezza età che fa questo da quando aveva cinque anni!».
Si sposa alla perfezione con Giorgio Morandi, un artista ossessionato da bottiglie e vasi?
«Morandi prende le bottiglie e i vasi di una credenza e passa del tempo, una vita, combinandoli con luci diverse e diversi allestimenti. Mi sembra fantastica quest’idea del ritorno ossessivo, di capire qualcosa guardandola incredibilmente a fondo».
La sua ceramica cambia di volta in volta?
«Sono dei contenitori. Come per Morandi sono una forma, cilindri di porcellana».
Le piacciono così tanto i vasi bianchi da non poterne fare, ad esempio, di rossi?
«No. potrebbero anche essere neri. Il motivo per cui ritorno ogni volta a questo semplice vaso bianco è che per me è più complicato».
Perché?
«Il bianco è peculiare: è il colore dell’annullamento, della cancellazione, dell’infinito. Un colore con valenze metafisiche ed estetiche. Non si tratta di gusto, si tratta di idee».
Che cosa crea?
«Sono poesie. La mia arte consiste nell’usare l’idea del contenitore, rendendola astratta, trasformandola in poesia. Metto insieme le cose in modi particolari, creando gruppi e pause, silenzi e ripetizioni. È un’arte nuova che arriva da una vecchia tradizione. Non faccio stoviglie».
Non è mai tentato di sperimentare altri colori?
«Nel mio studio ci sono qualcosa come mille bianchi diversi. Ho anche un numero analogo di smalti neri. Sono interessato alla porpora? No. Non si tratta di gusto né di buone maniere. Si tratta di idee».
Il suo lavoro sottintende una dichiarazione politica pro o contro qualcosa?
«Tutto il mio lavoro è molto politico. L’anno scorso ho fatto due mostre impegnate, una sulla memoria, con l’archivio Walter Benjamin a Berlino. L’altra per il Kunsthistorisches Museum: Vienna è una città difficile per me, lì viveva la mia famiglia. Erano ebrei e da lì sono stati esiliati e uccisi. Ora sono stato al ghetto di Venezia, dove ho lavorato a un progetto per la Biennale».
Crea ceramiche dalle ceneri dell’Olocausto e dal suo patrimonio familiare ebraico?
«Nel fare qualcosa al contempo storicamente risonante e del tutto nuovo significa muoversi verso la perdita e verso l’indicibile. Sempre più ritorno all’impossibilità dell’arte. Bisogna fare qualcosa e tu sai che fallirai, ma devi continuare a fronteggiare una reale e profonda complessità. Più invecchio e meno capisco perchè lo faccio».
Usa l’argilla bianca come metafora per esprimere se stesso?
«Sì. Assolutamente».
Ha imparato così bene la tecnica da potersi davvero esprimere?
«Dopo molto esercizio e ripetute prove di un pezzo, i musicisti vivono la musica in modo diverso. La formazione per usare l’argilla e apprendere tutta l’arte della ceramica richiede decenni. È un’abilità che devi imparare in molti posti. Io l’ho imparata in Giappone, in Cina e qui. A 50 anni suonati sto iniziando a fare le cose che mi piacciono».
Dove si colloca come artista?
«Cerco di non collocarmi. Non mi adatto. Ne “La chiave a stella” Primo Levi descrive l’incredibile integrità insita nel mettere lentamente insieme qualcosa e poi fermarsi a guardare quello che si è fatto. Le cose che davvero contano riguardano l’Homo Faber».
Traduzione di Carla Reschia
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Edmund de Waal è famoso per i suoi libri, «Un’eredità d’avorio e ambra» e «La strada bianca», oltre che per le sue ceramiche. La sua recente mostra a Stoccolma era intitolata «Morandi / de Waal».
Non è insolito che un artista sia anche uno scrittore di best- seller?
«È insolito appassionarsi a entrambe le cose, ma per me non sono molto distanti. Pensare e modellare con le parole e pensare e modellare con l’argilla hanno una genesi simile».
Com’è nato «Un’eredità d’avorio e ambra», un memoir sulla sua famiglia?
«Per capire la mia eredità familiare, quello che mi è stato lasciato e da dove vengo. La chiave sono gli oggetti, perché gli oggetti per me sono importanti. È un libro sulla memoria attraverso il tatto, sull’ossessione e sulla collezione».
Poi ha scritto «La strada bianca» sulla sua arte di ceramista. Perché?
«Un altro tentativo di capire chi sono e perché da quasi 50 anni realizzo recipienti di ceramica bianca. È ridicolo. Un uomo di mezza età che fa questo da quando aveva cinque anni!».
Si sposa alla perfezione con Giorgio Morandi, un artista ossessionato da bottiglie e vasi?
«Morandi prende le bottiglie e i vasi di una credenza e passa del tempo, una vita, combinandoli con luci diverse e diversi allestimenti. Mi sembra fantastica quest’idea del ritorno ossessivo, di capire qualcosa guardandola incredibilmente a fondo».
La sua ceramica cambia di volta in volta?
«Sono dei contenitori. Come per Morandi sono una forma, cilindri di porcellana».
Le piacciono così tanto i vasi bianchi da non poterne fare, ad esempio, di rossi?
«No. potrebbero anche essere neri. Il motivo per cui ritorno ogni volta a questo semplice vaso bianco è che per me è più complicato».
Perché?
«Il bianco è peculiare: è il colore dell’annullamento, della cancellazione, dell’infinito. Un colore con valenze metafisiche ed estetiche. Non si tratta di gusto, si tratta di idee».
Che cosa crea?
«Sono poesie. La mia arte consiste nell’usare l’idea del contenitore, rendendola astratta, trasformandola in poesia. Metto insieme le cose in modi particolari, creando gruppi e pause, silenzi e ripetizioni. È un’arte nuova che arriva da una vecchia tradizione. Non faccio stoviglie».
Non è mai tentato di sperimentare altri colori?
«Nel mio studio ci sono qualcosa come mille bianchi diversi. Ho anche un numero analogo di smalti neri. Sono interessato alla porpora? No. Non si tratta di gusto né di buone maniere. Si tratta di idee».
Il suo lavoro sottintende una dichiarazione politica pro o contro qualcosa?
«Tutto il mio lavoro è molto politico. L’anno scorso ho fatto due mostre impegnate, una sulla memoria, con l’archivio Walter Benjamin a Berlino. L’altra per il Kunsthistorisches Museum: Vienna è una città difficile per me, lì viveva la mia famiglia. Erano ebrei e da lì sono stati esiliati e uccisi. Ora sono stato al ghetto di Venezia, dove ho lavorato a un progetto per la Biennale».
Crea ceramiche dalle ceneri dell’Olocausto e dal suo patrimonio familiare ebraico?
«Nel fare qualcosa al contempo storicamente risonante e del tutto nuovo significa muoversi verso la perdita e verso l’indicibile. Sempre più ritorno all’impossibilità dell’arte. Bisogna fare qualcosa e tu sai che fallirai, ma devi continuare a fronteggiare una reale e profonda complessità. Più invecchio e meno capisco perchè lo faccio».
Usa l’argilla bianca come metafora per esprimere se stesso?
«Sì. Assolutamente».
Ha imparato così bene la tecnica da potersi davvero esprimere?
«Dopo molto esercizio e ripetute prove di un pezzo, i musicisti vivono la musica in modo diverso. La formazione per usare l’argilla e apprendere tutta l’arte della ceramica richiede decenni. È un’abilità che devi imparare in molti posti. Io l’ho imparata in Giappone, in Cina e qui. A 50 anni suonati sto iniziando a fare le cose che mi piacciono».
Dove si colloca come artista?
«Cerco di non collocarmi. Non mi adatto. Ne “La chiave a stella” Primo Levi descrive l’incredibile integrità insita nel mettere lentamente insieme qualcosa e poi fermarsi a guardare quello che si è fatto. Le cose che davvero contano riguardano l’Homo Faber».
Traduzione di Carla Reschia