La Stampa, 11 novembre 2017
Intervista a Marco Presta: «Nessun autore può eguagliare la comicità involontaria dei politici»
La radio, come alternativa fantastica della realtà, è poco credibile per tutti. Tranne che per Marco Presta scrittore romantico. Perché il Marco Presta autore satirico, quello de «Il Ruggito del coniglio» preferisce dire che con la radio è bello riderci.
Buon compleanno Marco Presta nato proprio l’11 novembre del 1961, in un quartiere popolare di Roma dove ancora vive felice con moglie e figli. Forte di una faccia un po’ triste, perfetta per il comico, Presta inizia ad amare la radio da ascoltatore: «Alto Gradimento», «Il Gambero», «Gran Varietà». L’affascina questo mezzo più moderno della tv, più veloce e più radicato sul territorio. Lo distrae l’Accademia d’Arte Drammatica, in classe con Zingaretti, Popolizio, Buy, Guzzanti. Poi l’incontro con Vaime, che gli fa capire quanto sia meglio scrivere quello che vuoi dire piuttosto che parlare con parole altrui. Tanti lavori per teatro e televisione tra i quali non gli si perdonerà mai «Un medico in famiglia» e 25 anni fa l’incontro fortuito con Antonello Dose, il suo sodale in tanta radio.
Corretto Presta?
«A dirla tutta, tanta radio non ci sarebbe stata senza Renzo Arbore».
In che senso?
«Con Dose eravamo partiti con “Effetti collaterali” che ai vertici non piaceva. L’avevamo saputo ed eravamo pronti all’addio. Poi un giorno Arbore chiama il capostruttura e chiede di noi, voleva sapere chi fossimo, gli piacevamo. Non ci spensero più. Improvvisamente eravamo graditi a tutti».
Da 23 anni siete «Il ruggito del coniglio» su Radio 2. Il segreto di tanta felice longevità?
«Il contributo del pubblico in diretta. La spina dorsale comica del programma è la vita. La nostra linfa è quel che accade. E poi l’Italia, una benedizione aprire i giornali. L’elezione in Sicilia con l’arrestato appena eletto è una manna per la satira. E la gente, un giorno ha chiamato uno da sopra un carro funebre pur di intervenire...».
Meno male che non era dentro.
«Peccato invece. Pensi in Svizzera quanto devono faticare i miei colleghi senza alcun aiuto. Fino a quando non si arriva all’effetto paradosso».
La realtà meglio della fantasia?
«Esatto. Se la censura è un bene per la satira, la rafforza, il gesto comico del politico per noi è ineguagliabile. Tanti Razzi alla lunga ci renderanno inutili. C’è bisogno di credibilità per poterla ridicolizzare».
La realtà è anche la capocciata di Spada sull’inviato di Nemo. Può diventare battuta?
«All’estero lo fanno. Per me no. La violenza non deve far ridere ma solo generare orrore. Ci sono dei paletti invalicabili e su certi episodi lo show si deve fermare. Meglio una riflessione alla Ennio Flaiano, perché la satira è anche indignazione e può non usare la battuta tradizionale ma affidarsi ad altre strade per scatenare sdegno».
Lei di che ride?
«Della sorpresa, di ciò che mi spiazza, di un punto di vista diverso della realtà. Soprattutto dello scivolone sulla buccia di banana. Ineguagliabili Stanlio e Ollio che cercano di portare un pianoforte al terzo piano. Mi farà sempre ridere più della migliore satira politica».
I suoi colleghi preferiti?
«Guzzanti, Crozza, soprattutto Littizzetto e Marcorè e non solo perché ho lavorato per loro. Sono talenti puri».
E tanto per non ridere sempre, lei scrive romanzi, anche melanconici. È appena uscito per Einaudi «Accendimi», la storia di una pasticciera in crisi di vendite e d’affetti, con un fratello delinquente, che s’innamora di una voce alla radio e ci si mette insieme... A dirla così è comica.
«Invece è romantica anche se si sorride. La radio come porticina per entrare in un mondo migliore, una voce misteriosa che può essere il tuo sussurro interiore».
Senza anticipare nulla, ci sono soluzioni illogiche.
«La logica a volte sminuisce la magia della favola che è la forma più realistica del racconto».
E lei chi sarebbe nel romanzo? La voce? La protagonista?
«Il bambino brutto che entra con la mamma. Un bambino timido che tende ad implodere. Come ero io. Mi ricordo da piccolo la pasticceria sulla Tuscolana dove andavo con mamma. La commessa mi sembrava la donna più bella del mondo e mi regalava di nascosto un bignè. Quell’odore di crema e di cose buone per me è il profumo della favola».
L’amicizia ha un posto importante nel romanzo e anche nella sua vita?
«Certo. Con Dose per esempio. Il nostro rapporto si mantiene negli anni anche perché siamo diversissimi e l’alchimia regge. Io impulsivo, umorale, lui calmo, un mediatore. Litighiamo moltissimo ma siamo amici».
Lei è triste come tutti i comici professionisti?
«Esatto, per questo lo dissimulo».
Scrivere per il cinema non le è mai piaciuto o non le è capitato?
«Il cinema è un occhio che vede ma resta quello della telecamera. Se scrivi un monologo per un comico puoi giocare con le parole. E questo te lo permette la radio, il teatro, la letteratura. Mi piace la pagina scritta».
Lei è un lettore di genere?
«Sono onnivoro, da Buzzati a Pontiggia, da Saul Bellow a Pamuk. Salto dall’uno all’altro perché quasi qualsiasi libro vale la pena di essere letto, come quasi qualsiasi persona di essere conosciuta».
Lei non appartiene a gruppi autoriali come usa oggi?
«No, non mi piace. Si tende all’allevamento di massa. Per questo apprezzo il lavoro che fa Paola Marchesini, direttore di Radio 2 sul singolo».
Che cosa avrebbe voluto scrivere?
«Le prime tre pagine del Malloppo di Marcello Marchesi, contengono un esercizio di intelligenza sconfinato».
Come andrà a finire?
«Che moriremo ridendoci addosso».