il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2017
Intervista a Bice Cairati, alias Sveva Casati Modignani: «Se consegnavo un bel pezzo, mi chiedevano: ma chi te l’ha scritto»
In un verso Carducci nota che delle cicale “cantano i maschi, le femmine no. Le donne sono sempre senza poesia”. I pregiudizi, sappiamo, sono millenari: per Euripide, “la donna è peggiore dei mali”. Oggi resistono con pervicacia, in bilico tra un maschilismo clandestino ma per nulla estinto e un femminismo per lo più di maniera. Con entrambi non vuol scendere a patti Bice Cairati, che il grande pubblico conosce come Sveva Casati Modignani, scrittrice amatissima non solo in Italia.
Lei ha cominciato a scrivere nei giornali, giusto?
Ho lavorato alla Notte e allo Specchio, un giornale di destra con sede a Roma, il cui direttore era un italo americano, Giorgio Nelson Page. C’erano Pier Francesco Pingitore e Olghina Di Robilant, è stato uno dei primi settimanali a raccontare la dolce vita romana, i salotti, il jet set internazionale che si dava appuntamento in via Veneto. Io seguivo la dolce vita milanese. Lì mi sono infilata in un mondo che non mi apparteneva, quello dei ricchi: andavo ai matrimoni esclusivi, ai party. Erano gli anni Sessanta, anni in cui imperversava la Dc, bigotta e codina, che però sapeva amministrare bene, la cosa pubblica e, certo, anche gli affari personali. Oggi eleggiamo uomini e donne che devono amministrare la cosa pubblica e non sanno neanche da parte cominciare. Quando vengono toccati da qualche indagine della magistratura, gridano alla lesa maestà…. Ha ragione Piercamillo Davigo, quando dice che hanno smesso di vergognarsi, non di rubare.
Com’erano quegli anni?
Fantastici. Anni di crescita, speranze, conquiste: gli operai, per la prima volta, potevano comprarsi la casa e l’automobile, far studiare i figli. Tutto sembrava possibile.
Altri giornali?
Ho lavorato a lungo per alcuni settimanali della Rizzoli: Annabella, Novella e Sogno, un giornale di fotoromanzi. È stato allora che ho cominciato a scrivere soggetti e sceneggiature di storie strappalacrime, un’esperienza che mi ha insegnato a costruire trame e mi è stata utile per la stesura dei miei romanzi. Poi sono stata a Il milanese guidato da Angelo Rozzoni, che aveva lasciato la direzione del Giorno: era stato un lettore della mia rubrica sullo Specchio e mi chiese se volevo ripetere l’esperienza. Io ne avevo piene le scatole del “bel mondo”, della “gente giusta”, dei “nati bene” e non avevo nessuna voglia di rituffarmi in quegli ambienti che trovavo mortalmente noiosi. Lui mi convinse facendomi ponti d’oro ed effettivamente la mia rubrica risultò essere, parole sue, “una colonna portante del settimanale”.
Com’era per una donna la vita in redazione?
Molto complicata… Ricordo una collega che teneva una sorta di posta del cuore ante litteram: la prendevano in giro chiamandola “l’ecò de l’uterò”, pronunciato alla francese. Anche a me gli uomini hanno reso la vita difficile, sfottendomi in continuazione. Se consegnavo un bel pezzo, mi dicevano “ma chi te l’ha scritto?”. Tanto che a un certo punto, era nato mio figlio, mi sono detta: “Ma chi me lo fa fare?”. E me ne sono rimasta a casa. Mio marito lavorava all’Europeo, io poi volevo scrivere storie.
È vero che scrivevate insieme i romanzi?
Ma no… Ne abbiamo scritti tre insieme: tutti gli altri li ho scritti da sola. Mio marito tendeva a sminuirmi, ma ha intuito che avevo un talento per le storie. Gli uomini lo fanno, criticano le loro compagne. È un modo per esercitare il dominio.
Il suo ultimo romanzo, Festa di famiglia è una storia di amicizia tra donne.
Le protagoniste sono quattro amiche tra i 35 e i 45 anni. Una sola è sposata, un’altra ha un compagno da anni ma i guai cominciano con la convivenza. Le altre due sono single, ma tutte sono piene di casini. Le vere amiche sono come una famiglia. Ho lanciato un sassolino sull’inutilità del matrimonio nella nostra epoca: un uomo e una donna si amano, stanno insieme si rispettano senza bisogno di un vincolo perché anche laddove esiste un vincolo, ci sono mariti che non rispettano le mogli e viceversa. Non è vero che il fine di una coppia sia l’anello al dito, il fine di una coppia è amarsi e, se capita, fare una famiglia. Non credo più al matrimonio.
Ma all’amicizia sì…
Ho sperimentato l’inimicizia tra donne, che quando vogliono sanno essere feroci tra loro. Credo sia per un retaggio atavico, maschile, il divide et impera. Quando le donne imparano a essere solidali tra loro è una meraviglia. Perché una bella donna, intendo in assoluto non fisicamente, ha qualcosa in più. Intanto la maternità. Ma soprattutto, la capacità di sedare i conflitti, di darsi con generosità. Il mondo riposa sulle spalle delle donne da secoli. Le nostre nonne, le nostre bisnonne, vivevano in campagna, lavoravano dentro e fuori casa, partorivano i figli a volte nei campi. Siamo il sesso debole solo nel senso che, fisicamente, l’uomo è più forte di noi. Psicologicamente, siamo molto più forti di loro. Abbiamo imparato a rafforzarci per sopravvivere in un mondo che non ha mai voluto rinunciare al predominio maschile.
Oggi a che punto siamo?
Rispetto agli anni delle lotte femministe per la conquista della parità dei diritti e del riconoscimento della nostra dignità, assistiamo a una regressione paurosa nelle nuove generazioni. Tre decenni di televisione commerciale tesi a riconquistare il potere del maschio, sotto il vessillo delle belle ragazze dai décolleté prorompenti e fondi schiena ammiccanti – perché solo così puoi avere successo – si è innescata una retromarcia preoccupante che ha sostituito l’essere all’apparire. Cioè, poiché vi mostro quanto sono bella, il mondo è mio. Invece il femminismo aveva lottato per dire: poiché sono intelligente, poiché sono fiera della mia dignità di donna, poiché studio e lavoro, voglio essere e non sembrare. E quando questo avviene, il maschio si spaventa, gli fa comodo continuare a considerarti un oggetto e cerca di distruggerti. Altrimenti, come ce la spieghiamo la recrudescenza della violenza contro le donne?
C’è una responsabilità anche delle donne in questa regressione?
La televisione ha fatto grandi danni al punto tale che assistiamo allo spettacolo degradante di persone anziane che si gonfiano il seno e si tirano la faccia. Questo è il messaggio che passa, purtroppo ha travolto gran parte delle lotte femministe. Una situazione pietosa.
Ha partecipato al movimento femminista?
No, certe manifestazioni non mi piacevano. Gli slogan “l’utero è mio” e cose così li ho sempre trovati di cattivo gusto. Lo stesso effetto mi fanno oggi i gay pride: la sessualità è sacra, ognuno se la gestisce in privato. Credo che il folklore non giovi alla causa dei diritti, sacrosanti, degli omosessuali. Così come è stato per le femministe.
E cosa è servito?
La conquista dell’autonomia economica. Quando le donne hanno avuto accesso alle professioni, ai diritti politici. Quando si sono liberate dal giogo della dipendenza da padri, fratelli e mariti. Fino a trent’anni fa una donna che aveva un figlio fuori dal matrimonio era additata come una poco di buono. Le donne della mia età non hanno avuto scelte: o ti sposavi o ti sposavi. Le battaglie femministe ci hanno aiutato moltissimo: per fortuna molte cose sono cambiate. Eppure, nel mondo del lavoro, dobbiamo tristemente rilevare che a parità di mansioni e capacità, le donne guadagnano meno. Se c’è in ballo una promozione, quasi sempre vince un uomo. I servizi a sostegno della maternità dovrebbero essere la prima misura, in modo da disincentivare la dispersione lavorativa delle donne. Sarebbe utile che i nidi aziendali fossero la regola, non l’eccezione come accade ora.
Favorevole alle quote rosa?
No. Credo siano una vergogna, una discriminazione intollerabile. Recentemente sono stata in un paese il cui sindaco, maschio, con orgoglio mi ha detto: “Io ho un sacco di assessori donna”. Con questo credono di avere pareggiato i conti! Ma sono specchietti per le allodole: il sindaco è lui.
Molte dicono: come misura temporanea le quote possono essere utili a colmare una disparità.
Ma si passa un messaggio sbagliato! Roba da minoranza linguistica.
L’obiezione è che se non si fa per legge non succederà mai.
Non credo. È come l’obbligo di declinare i nomi al femminile: la sindaca, l’assessora, la ministra. Cazzate, manie ridicole. Non è così che si afferma la presenza delle donne. Oltretutto tutto questo si fa con operazioni che deturpano la lingua italiana. L’ingegnera? L’ingegneressa? Queste supposte strategie non cambiano nulla dal punto di vista sostanziale. A me sembra che questo insistere con sciocchezze di poco conto sminuisca e disconosca il valore delle donne. Oltretutto una donna autorevole non ha bisogno di questi orpelli. È un modo per distrarre. Intendo: sono più interessata alle proposte del ministro Fedeli, che a come si fa chiamare.
È vero che le donne fanno doppia fatica nel lavoro?
Sì. Nei giornali, come dicevo all’inizio, ho fatto un gran fatica. E anche dopo, quando ho cominciato a scrivere libri. Mi faceva imbestialire la condiscendenza con cui mi trattavano. Ero la “giovane autrice” con “tanta buona volontà”… Una volta a Torino sono stata presentata a Beniamino Placido, e lui, guardandomi con grande tenerezza, mi parlò come si parla a una bambina deficiente: “Cara, conosco il suo nome perché la mia mamma legge i suoi romanzi”. Mi sono arrabbiata. E gli ho risposto: “Professore, avrei preferito che mi dicesse che ha letto un mio libro e le ha fatto schifo”.
Cosa le dà più fastidio della condizione delle donne oggi?
La scarsa considerazione che le donne continuano ad avere di se stesse. Hanno meno voglia di affermarsi, di fare sacrifici mettendosi in gioco, perché è passato il messaggio che possono avere successo più facilmente mettendo in mostra le qualità esteriori. Quando gli uomini partivano per le crociate, stavano via per anni lasciando a casa le donne. Quelli che sopravvivevano tornavano e trovavano una città amministrata dalle donne, scoprivano che i granai erano pieni, le liti con i vicini erano state risolte. C’era una prosperità incredibile. Si sono detti: “Che cosa si sono messe in testa queste donne? Mica vorranno prendere il nostro posto?”. E le donne sono tornate nell’angolo vicino al focolare. In un mondo utopico, in cui le donne potessero gestire il potere su un piano di parità con gli uomini, usando il dialogo e non la violenza, le cose funzionerebbero meglio, sempre che si superi una volta per tutte il retaggio ancestrale del mettersi una contro l’altra. Abbiamo rosicchiato, anno dopo anno, quel poco di autonomia che siamo riuscite ad ottenere: non dobbiamo smettere di combattere. Non riusciremo ad avere un riconoscimento del nostro ruolo facendoci chiamare ministra o presidenta. Ma soltanto imponendoci con la nostra forza.
In Arabia Saudita le donne ora possono guidare. Alcune attiviste sono state arrestate negli ultimi anni, ma alla fine ce l’hanno fatta. Aspettando le concessioni non si va lontane?
Ma certo. La cosa è ancora più sconcertante perché le donne non potevano guidare anche se non c’era una legge che lo vietava. Assurdo, no? Io fatico a comprendere anche il velo: molti dicono che sia una scelta delle donne, ma io mi domando quanti condizionamenti ci siano dietro quella scelta. Cos’hanno di brutto da nascondere? I capelli sono una vergogna?
L’obiezione è che anche le suore coprono il capo.
Frequento un monastero di monache benedettine e loro mi dicono che è stata una grande conquista liberarsi dal soggolo e che vorrebbero potersi levare anche il copricapo. Ma non è facile trattare con il Vaticano. Queste donne, che spesso sono fior di laureate, dalla clausura conoscono il mondo meglio di noi. Le immagini dell’11 settembre mi hanno messa in crisi perché ho realizzato per la prima volta che eravamo odiati, ferocemente odiati. Una settimana dopo sono andata in monastero e lì ho seguito le conferenze di Benoît Standaert, un famoso frate benedettino, che stava girando tutti i monasteri italiani per parlare di islam e dialogo interreligioso. Non ho fatto che prendere appunti.
Ultima domanda: il caso Weinstein ha avuto un effetto valanga. Non c’è giorno che non ci siano denunce di molestie o stupri. Lei che ne pensa?
Se guardo all’effetto valanga, penso solo “meglio tardi che mai”. Per quanto tempo ancora le donne dovrebbero portarsi dentro il peso di una violenza subita? Le violenze sessuali nel mondo dello spettacolo erano arcinote da sempre, ma nessuno le denunciava. Ma quanti sono i luoghi di lavoro in cui vengono perpetrati gli stessi abusi? Quante sono le “belle famiglie” in cui l’uomo stupra la sua compagna e, talvolta, anche i figli? Le donne hanno sempre taciuto per vergogna, sapendo che, se avessero parlato, si sarebbero sentite dire: “Lui l’ha fatto, perché tu lo hai provocato”. La colpa è sempre della donna, mai del maschio che ha bisogno di umiliare una donna, quale che sia, per sentirsi virile. Queste violenze esercitate soprattutto su donne fragili, insicure, che si sentono in una condizione di sudditanza davanti al produttore, al capoufficio, al compagno manesco, gridano vendetta al cielo. Questi infami devono essere puniti molto severamente e in seguito curati da plotoni di psicologi, perché sono chiaramente dei malati. Mi disgustano le donne che invece di schierarsi con le vittime abusate, si scagliano contro di loro accusandole di andare a caccia di pubblicità, di essersi sottomesse per averne un tornaconto. Non sono gli uomini i peggiori nemici delle donne, ma le donne stesse, quelle che non hanno ancora capito l’importanza di essere solidali tra noi.