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 2017  novembre 10 Venerdì calendario

L’Italia cresce oppure no? Tanti spot, ma Pil lumaca

Matteo Renzi vede la vie en rose. Ieri ha salutato così le previsioni d’autunno della Commissione europea: “L’Italia è ripartita, punto. Chi dice il contrario racconta bugie, quando si stava a -2% e ora a +2%, quando ci sono 986.000 posti di lavoro in più, vuol dire che qualcosa si è mosso”. In effetti il movimento c’è stato, ma sarebbe anche utile capire rispetto a cosa. Le previsioni Ue dicono che l’Italia sarà il Paese europeo con la più bassa crescita nel 2017-2019: il Pil salirà dell’1,5% quest’anno e dell’1,3% il prossimo (lo 0,2% in meno di quanto prevede il governo; -0,8 rispetto al resto dell’Ue). Non significa che Paesi come la Grecia facciano meglio, ma vengono da una crisi perfino peggiore di quella italiana e quindi il rimbalzo è più vistoso. Eppure basta guardare il grafico in pagina per comprendere la situazione dell’Italia: la sua crescita è in realtà una lentissima risalita da uno sprofondo mai visto in tempi di pace. Breve verifica di come stanno le cose messe in prospettiva.
Crescita. Il Pil a +2% nel 2017 immaginato da Renzi è frutto del ragionamento del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: siccome nel terzo trimestre il Pil dovrebbe chiudere a +0,5%, il dato di fine anno sarà più alto dell’1,5% previsto. Detto che l’Ufficio parlamentare di bilancio non la pensa così, perché prevede un rallentamento nel quarto trimestre, basta allargare lo sguardo per capire di cosa si parla. Prima della crisi l’Italia cresceva meno del resto dell’Eurozona, ma più della Germania (alle prese con le “riforme del lavoro”, che deprimono i salari). Poi è arrivato lo choc finanziario proveniente dagli Usa. Nel 2008-2013 ha perso 9 punti di Pil. Negli anni renziani ha recuperato qualcosa, ma è ancora il 7% più basso del picco pre-crisi. Nel 2018, se venissero confermate le stime, si andrà -5%. Nel 2016 i consumi erano ancora del 4,5% inferiori al 2007 e se continua così difficilmente recupereranno il gap nel 2018. Il dato più eloquente riguarda gli investimenti pubblici, la parte più produttiva della spesa: -26% rispetto al 2007. L’anno scorso – stima la Cassa depositi e prestiti – erano tornati al livello del 1995. Se va avanti così, ci vorranno 10 anni per recuperare terreno (l’eurozona dovrebbe chiudere il gap nel 2018).
Industria. Quanto detto sopra si spiega con quanto successo alla manifattura italiana, la seconda d’Europa: con la crisi ha perso un quarto della sua produzione industriale. Nonostante gli ultimi buoni dati, il picco del 2007 è lontano 20 punti. “La questione edilizia è la questione del nostro Paese”, ha spiegato ieri Renzi. Il settore delle costruzioni era a -44% a fine 2016.
Lavoro. L’ex premier è solito contare i nuovi occupati da quando è salito al governo (“merito del jobs act”). In effetti dal febbraio 2014 si registrano 985 mila occupati in più. Problema: al netto del crollo degli autonomi, quelli a tempo indeterminato sono cresciuti meno dei precari (505 mila contro 610 mila). Il 94% della crescita degli occupati dipendenti nell’ultimo anno è fatto da precari, solo il 6% dagli “stabili” (ammesso che si possano considerare tali senza l’articolo 18). Finiti gli sgravi alle assunzioni, la loro quota sul totale di nuovi posti da quando si insediò a Palazzo Chigi è passata dall’89 al 60%. La stragrande parte peraltro è over 50, effetto – spiega l’Istat – dell’aumento dell’età pensionabile imposto dalla riforma Fornero delle pensioni. Il tasso di occupazione è inferiore dell’1% rispetto al 2007 (in termini di unità di lavoro a tempo pieno siamo ancora 1 milione sotto), la disoccupazione è raddoppiata ed è all’11,2%. E qui c’è un’aggiunta da fare: secondo la Bce, la disoccupazione “reale” è molto più alta. Considerando chi cerca un lavoro (disoccupati), chi non lo cerca ma vorrebbe lavorare (scoraggiati) e chi lavora meno di quanto può (sottoccupati) quella dell’eurozona passa dal 9,5 al 18%. Sul Fatto Alberto Bagnai, professore di Economia all’Università di Pescara ha mostrato che applicando il metodo di calcolo usato negli Usa (U6) si arriva a una disoccupazione reale del 30,4%, più della Grecia.
Salari. Sono la benzina della domanda aggregata, ma con un esercito di disoccupati è normale che calino. E d’altronde è a questo che serve la “flessibilità” del lavoro, cioè la facilità di licenziare, perseguita dalle “riforme” (jobs act compreso). Nel 2007-2016, dice la Fondazione Di Vittorio, i salari nominali sono saliti del 5,7% in meno rispetto al resto dell’eurozona. Quelli “reali” (al netto dell’inflazione) sono inferiori al 2007. La quota salari (quanto Pil finisce in retribuzioni) è calata dell’1,3%.