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 2017  novembre 09 Giovedì calendario

Franco Carraro si racconta in un’autobiografia di trecentosette pagine

Trecentosette pagine. «Mai dopo le 23», l’autobiografia di Franco Carraro appena uscita in libreria, è in viaggio fra Mondiali e Olimpiadi, Fifa e Cio, Coni e Figc, Craxi e Berlusconi.
Ma noi vorremmo cominciare da Mennea, forse il più citato.
«Un grande, forse il più emblematico atleta dello sport italiano. Lo dicono le stagioni nelle quali aveva tre o quattro dei migliori dieci tempi al mondo dei 200. Lo dice il primato del mondo, oggi ancora record europeo. E lo dicono le foto».
Quali foto?
«Quelle che potete mettere a confronto, lui, sempre uguale come peso e altezza, e tanti altri che quel primato hanno tentato di batterlo e magari tuttora non ci sono riusciti. Quelle foto ci dicono che Mennea è sempre andato a pane e acqua».
Però il Mennea del «dopo», nonostante le sue quattro lauree, il mondo dello sport non se l’è proprio filato.
«Probabilmente ci saranno stati errori reciproci. Forse c’entra anche il fatto che il grande campione, quando diventa dirigente, fatica a rinunciare al proprio egocentrismo».
Parlavamo di lacrime e di commozione. Quindi anche lei…
«Ora di più. Per esempio, quando vedo giocare le mie squadre, il Milan e la Nazionale, i rigori non li guardo mai».
Ce me ricorderemmo dovesse succedere qualcosa dagli 11 metri venerdì a Solna. Ma lei come la vede l’Italia dentro o fuori?
«Sono sempre ottimista. E poi non andiamo dietro a quanto è successo a Madrid. Tradizionalmente, in quel periodo dell’anno, incontriamo tante difficoltà. In questo, molte meno».
Chi è che può prendere in mano la situazione, venerdì, lunedì e speriamo in Russia, e diventare lo spirito di questa squadra?
«Primo Buffon, secondo Buffon, terzo Buffon».
Se dovesse succedere l’irreparabile il presidente federale dovrebbe dimettersi?
»Non mi misuro mai sulle ipotesi e poi sono ottimista».
Buttiamo un momento il pallone lontano e sfogliamo le sue pagine. Mosca 1980, il suo capolavoro diplomatico: l’Italia che va alle Olimpiadi nonostante il boicottaggio occidentale per l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Lei racconta anche della sua rottura con Bettino Craxi.
«Non fu un capolavoro, fu l’atteggiamento naturale di un comitato olimpico. Pure Craxi condivideva all’inizio: Spartachiadi no, Olimpiadi sì. Se avessimo trovato ai Giochi solo Paesi del blocco dell’Est, saremmo rimasti a casa. Ma non fu così. Se avessimo interrotto tutti i rapporti, anche commerciali, avrebbe avuto un senso, ma così no».
Ne è passato di tempo… Oggi, l’Olimpiade non è più lo stesso. Meglio, il movimento olimpico. Non si fa a tempo: arrestano Nuzman, il numero 1 di Rio, cacciano Fredericks per corruzione, e l’altro ieri l’enorme scandalo della Iaaf di Diack. Senza dimenticare la Fifa.
«Olimpiadi e Mondiali sono gli unici avvenimenti globali, programmati, che provocano un interesse enorme, globale. Un interesse che sta provocando una progressione geometrica. De Coubertin fu un genio, inventò le Olimpiadi moderne, che hanno tuttora un fascino formidabile. Ma sono passati 121 anni da allora. E tutto questo fa pensare che sia arrivato il momento di un cambio delle modalità della governance».
Una libertà di cui si è abbondantemente abusato. Non sente qualche imbarazzo nell’aver appreso che tanti suoi compagni di viaggio sono finiti male?
«Per abitudine non porto distintivi, neanche quello del Cio. Ma ero e sono onorato di farne parte. Non creda che non viva certi imbarazzi».
Lei, però, nel libro, difende alcuni personaggi finiti nell’occhio del suo ciclone: Joao Havelange, per esempio, il padrone della Fifa prima di Blatter.
«L’ho scritto. È stato una persona perbene. Il suo peccato? Il nepotismo. Lui è stato rovinato dal Texeira, suo genero».
Secondo lei non ha rubato?
«Sono un uomo, posso sbagliare. Ma rispondo di no, assolutamente no. Ci sono stati due Havelange: uno che ha aperto le frontiere del calcio, che ha innovato, un altro che si è rivelato vulnerabile, per sua stessa ammissione».
Prendiamo atto anche che nel suo libro, l’uomo delle tante presidenze parla spesso di dimissioni. Dimissioni «storiche». Per esempio, quelle che Zoff diede nel 2000 per le parole di Berlusconi sull’errore di «non marcare a uomo Zidane». Lei dice: sbagliò. Nel Paese dei cambi di casacca non pensa che la rarità di uno Zoff sia un bene prezioso?
«Certo! Tuttavia credo che quelle dimissioni siano state impulsive, forse frutto della stanchezza. E poi un mistero: perché un tecnico che aveva fatto così bene, anche in Nazionale, non abbia avuto più opportunità».
Beh, forse rispondere con quell’orgoglio alle parole di Berlusconi non deve essere stato un affare per lui…
«Alt, c’è una certezza, riconosciuta pure dagli avversari: di Berlusconi si può dire di tutto, ma non che sia rancoroso».
Poi ci sono le sue dimissioni, per la vicenda di Calciopoli. Nel libro lei dice: giusto che la Juve abbia pagato per i suoi dirigenti, ma in quell’epoca «a vincere i campionati è stata la squadra più forte o più fortunata». Insomma, giusto toglierle gli scudetti, in giusto darne uno all’Inter.
«Proprio così. È lo stesso pensiero che allora manifestò anche Candido Cannavò».
Quanto alla vicenda Calciopoli in generale?
«Non si è mai rintracciato un euro illecito. Per me è stata una partita di potere, incentivata da un sacco di chiacchiere».
Il calcio è più pulito di allora?
«Spero di sì. Anche se le insidie sono tante. La mia idea sarebbe quella di controlli a campione su vari aspetti di questo mondo. Condotti dalla giustizia, sportiva e non, comunque una giustizia che abbia poteri incisivi».
E la responsabilità oggettiva che diversi presidenti vorrebbero cancellare?
«Capisco, ma si tratta di un male necessario. Ed esiste pure a livello internazionale».
Dal Calcio al Coni. Lei da una parte fa i complimenti a Malagò per il suo tentativo di ringiovanire il sistema, ma restano presidenti eterni e dirigenti che pensano soprattutto a riprodurre il proprio consenso. Eppure lei discuteva con la Idem contestando il limite ai mandati? 
«Io avevo questa posizione all’inizio. Poi abbiamo analizzato le situazioni, studiandole. C’è il limite Cio dei 12 anni, quello introdotto dalla Fifa. Anche a livello internazionale la situazione è cambiata. Quella del limite dei tre mandati mi pare la soluzione più ragionevole».
Ora si dovrebbe fare un’altra intervista: sul doping. Lei nega una responsabilità sulle scelte di Coni e federazioni negli anni in cui firmaste i protocolli con il centro del professor Conconi, poi finito sotto processo, con i reati prescritti, ma con motivazioni durissime dei giudici.
«Bisogna storicizzare. Ricordo, solo come dato di cronaca, che dall’87 ho lasciato la presidenza del Coni. In quegli anni c’era l’idea che il trattamento farmacologico facesse parte della preparazione di un atleta. Una delegazione di nostri parlamentari, guidata da Ignazio Pirastu, andò a Lipsia nel 1977 con lo spirito di chi “andava a vedere come si vincono le medaglie”. A Montreal, nel ’76, era andata malissimo».
Tutto questo mette i brividi visto ciò che abbiamo scoperto su sport e doping nella Ddr.
«Ma allora tutto questo non si sapeva. Furono il dottor Benzi e l’onorevole Ceci Bonifazi, del Pci, a rappresentare una posizione diversa. Non li ascoltammo perché la stessa autoemotrasfusione era considerata una pratica lecita».
Ultima: che farà da grande?
«Continuerò a occuparmi di sport. Fino a che sarò lucido».