Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017
L’industria cresce il doppio del Pil. Italia settima al mondo
Una conferma: l’Italia nella classifica internazionale dei paesi manifatturieri consolida la settima posizione. Cina e Stati Uniti restano in testa, noi siamo secondi in Europa, con una quota di valore aggiunto del 2,3%, pari al 2016. Prima di noi, nella Ue, la Germania, al quarto posto. È la fotografia del Centro studi di Confindustria, presentata ieri nel seminario Scenari industriali. L’Italia ha «ben agganciato» la ripresa dell’area euro ed è l’industria a trainare lo sviluppo, sia nella Ue che da noi. In Italia la produzione industriale dall’inizio del 2013 al terzo trimestre del 2017 è cresciuta del 7,2%, con un incremento quasi doppio rispetto al Pil (il differenziale tra la crescita reale del valore aggiunto manifatturiero e quella del pil è di +0,9 punti, in Italia e in Europa), anche se siamo ancora a -18,4% rispetto al picco di produzione pre crisi. Èl’industria che ha tenuto a galla il paese durante la crisi, ha sintetizzato il direttore del CsC, Luca Paolazzi. L’automotive è il principale traino della produzione tra il 2013 e il 2016, nelle economie occidentali e in Italia e Spagna in particolare (+1,9 e + 2,7 punti percentuali). I beni strumentali dall’autunno 2014 al primo trimestre 2017 hanno segnato +15,5%, un trend favorito anche dalle misure del governo. Significativa l’avanzata dei beni intermedi (+7,7) e dei beni di consumo (+5,7).
L’imperativo è innovare: «una questione di vita o di morte», ha detto Paolazzi, specie in una situazione in cui la Cina punta sulla tecnologia avanzata e sui segmenti di qualità. Chi innova, processo e prodotto, ha nei tre anni successivi una crescita di fatturato del 25,7 punti percentuali superiore ai non innovatori, di produttività del lavoro (16,9 punti) e di addetti, + 8,7%.
A spingere sono una serie di fattori: il commercio globale, che quest’anno dovrebbe crescere del 4,1% e nel 2018 del 3,5 per cento; l’export, con l’Italia che ha conquistato quote di mercato ed ha un trend pari alla Germania (si veda box in pagina); il ciclo degli investimenti; la domanda interna; un recupero dei margini da parte delle imprese, nonostante l’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto, che dal 2007 al 2016 è aumentato del 15,2%, «erodendo la competitività di costo delle imprese italiane rispetto alle tedesche, francesi e spagnole». Un contesto in cui i livelli di credito, sottolinea il CsC, restano ancora «molto depressi». La situazione è «nettamente migliorata al netto degli Npl», sostiene il CsC, quindi non c’è più credit crunch, «ma – ha detto Paolazzi – rispetto ai livelli pre crisi c’è un abisso». Lo stock resta inferiore del 19% nel manifatturiero rispetto ai massimi del 2011 (-45 miliardi).
L’andamento positivo ha portato a un cambiamento di rotta anche sull’occupazione: dall’autunno 2007 all’inverno 2015 c’era stato un calo complessivo di quasi 800mila unità, -17,1 per cento. Dalla primavera 2015 c’è un cambiamento di rotta: l’occupazione ha fatto registrare nel manifatturiero un +1,5%, circa 60mila addetti in più, un dato che risente della distruzione del 25% dell’apparato industriale. Gli effetti del nuovo corso si avvertono sull’ammontare complessivo di posti di lavoro creati nell’economia italiana che ha quasi raggiunto il milione. Ciò che va contrastata, dice il CsC, è la fuga dei giovani: occorre investire nel capitale umano, vanno modificate le politiche aziendali sulle risorse umane e varate iniziative associative e governative. Quanto alla produttività, la crescita dipende più dalle strategie più che dal buon funzionamento dei mercati, anche se resta la necessità di sburocratizzare, semplificare, privatizzare. A questi ritmi il Pil tornerebbe ai livelli pre-crisi nel 2021.