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 2017  novembre 08 Mercoledì calendario

Apericena. Il nutrizionista: un’abitudine dannosa

L’apericena non esiste. Non esiste dal punto di vista storico, non esiste dal punto di vista nutrizionale e non esiste dal punto di vista del sapore. È un pasto finto, inutile, talvolta vergognoso. E poi dannoso per chi lo pratica, remunerativo per chi lo organizza, inutilmente triste per chi lo consuma. E, soprattutto, fa ingrassare parecchio.
L’apericena va completamente evitato. Questo libro potrebbe finire qui.
E invece no. Proprio perché amate capire a fondo il motivo delle cose, analizziamo insieme il fenomeno dell’apericena. Perfino la Treccani non se l’è sentita di definire maschile o femminile questo ibrido di aperitivo e cena, ricordandoci che, nella lingua italiana, l’invariabilità di genere di alcuni termini non è per nulla discriminatoria ma testimonia anzi una democratica sintesi. Questa pratica nasce proprio dalla fusione tra il rito borghese ottocentesco dell’aperitivo e quello della cena. Nei tempi moderni apericena è diventato sinonimo di trangugiare senza selezione una notevole quantità di cibi di bassa qualità, disposti sui ripiani di un buffet e accompagnati da uno o due cocktail a base di superalcolici.
L’aperitivo-cena piace per il semplice motivo che, con una cifra relativamente bassa, si può esaurire il bisogno sociale di ritrovarsi fuori da casa.Naturalmente questo ragionamento economico è comprensibile ma risulta molto meno chiaro il motivo per cui, invece di operare una scelta all’interno delle derrate proposte, persone pur dotate di una certa autocoscienza, si ritrovino a masticare qualsiasi tipologia di cibo, senza alcuna selezione, a priori, e senza alcuna memoria, a posteriori, di quanto hanno ingerito. La genesi di questo meccanismo è molto profonda, ma l’interruttore che lo accende è banale e risiede nell’abitudine, non solo italiana, di voler sempre avere l’impressione di aver fatto un affare. Analogo è il meccanismo che sottende al successo degli all you can eat, cioè mangia tutto quello che vuoi, finché ce la fai, per una cifra fissa. Questo meccanismo si basa sulla credenza individuale che il prezzo sia calcolato sulla clientela media e che quindi se si mangia a dismisura si riuscirà a gestire a proprio favore l’offerta economica.
In pratica, se il gestore ha calcolato che ciascuno mangerà cinque pizzette e io riesco a ingollarmene almeno quaranta, l’avrò fregato e mi sentirò piuttosto in gamba. Questo è un ragionamento incosciente, così com’è inconsapevole il bilancio finale di tale presunto affare. E cioè che rimarrò comunque fregato sotto tre punti di vista: quello nutrizionale, quello economico e quello del sapore, mentre l’unico a guadagnarci sarà lo sciamano di questa pratica tribale che, ben conoscendo i propri avventori, e per nulla motivato dal fatto che i clienti possano valutarlo sulla qualità del cibo proposto, scaricherà sui tavoli ogni sorta di nefandezza gastronomica, avendo solamente un paio di accortezze, ovvero sfamare il popolo bue con il cibo a minor impatto economico possibile (che solitamente sono i carboidrati) e procurare che il medesimo scarto alimentare sia abbastanza salato da favorire l’acquisto di un secondo cocktail in almeno il 30% della popolazione (cosa che accade puntualmente).