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 2017  novembre 08 Mercoledì calendario

Trump, un marziano a Washington. L’establishment diplomatico e intellettuale continua a considerarlo un corpo estraneo

«The cheapest thrill in town». Nei centri di ricerca lungo Massachusetts Avenue, i più importanti serbatoi di cervelli d’America per gli affari internazionali; a Foggy Bottom tra i funzionari del dipartimento di Stato; nelle due grandi università, la George Washington e l’antica Georgetown fucina del corpo diplomatico americano: oltre naturalmente al Washington Post, al Fondo monetario e alla Banca mondiale. In questi luoghi che definiscono il profilo della città, l’accelerazione della “cosa russa” – così Donald Trump l’aveva liquidata – ha provocato un brivido: l’eccitazione più a buon mercato nell’austera Washington.
Secondo un frequentatore dei dibattiti alla Brookings Institution, al 1775 di Massachusetts Avenue, è un segno di Dio che l’indagine di Bob Mueller sulle interferenze russe nelle elezioni americane per compromettere Hillary Clinton, arrivi a una svolta esattamente un anno dopo la vittoria di Trump. Era l’8 di novembre e molti ricordano quella notte come un incubo che all’alba successiva, anziché dissolversi, è diventato il «New normal» di Washington, dell’America e del mondo intero.
Qualsiasi cosa accada, anche un fatto eccitante, la vita prosegue senza scosse in questa città amministrativa che non è nordista ma neanche propriamente sudista: è un po’ tutte e due, geograficamente e nei comportamenti. Il giorno in cui l’Fbi ha arrestato tre persone decisive dell’entourage di Trump durante la campagna elettorale, alla Brookings si parlava di «Innovare le strategie di sviluppo in Africa»; alla Carnegie Endowment, la porta accanto di Massachusetts, il tema del giorno era l’India dopo la demonetizzazione della rupia; il Centro di studi strategici, il Csis 200 metri più in là, si occupava di assistenza umanitaria e dei suoi trend globali.
Tuttavia sotto l’apparente continuità rotta da una speranza d’impeachment – remota ma più possibile di prima – un anno dopo il grande smarrimento è ancora intatto: non è facile convivere con quella vittoria elettorale, con la quotidianità fatta di tweet in un inglese elementare, di dichiarazioni bombastiche, di falsità trasformate in verità. Secondo il fact checker del Washington Post, nei primi sei mesi di mandato il presidente ha fatto 836 affermazioni false o ingannevoli. Ma non è successo nulla. Donald Trump ha dimostrato una tale coerenza con le sue promesse elettorali da essere andato oltre il prevedibile pessimismo della Washington che lo detesta. Incapace di superare il trauma, il bimestrale Foreign Affairs, la bibbia dell’internazionalismo americano, ha dedicato sei copertine consecutive – cioè un anno intero di pubblicazioni – a Trump e al suo populismo.
«Mi sono spesso chiesto come ho potuto perdermi la tragedia annunciata», cioè l’elezione di Trump, si chiede Ta-Nehisi Coates nel suo ultimo saggio (“We Were Eight Years in Power: an American Tragedy”, Hamish Hamilton, Londra). «Prominenti intellettuali avevano predetto che il conservatorismo moderno – un movimento intriso di risentimento bianco – era alla sua fine e che un’onda demografica di asiatici, latinos e neri avrebbe affondato il partito repubblicano».
Scrivere libri è la via d’uscita – anche psicanalitica – di ogni intellettuale liberal distrutto da una sconfitta. Ne sono stati pubblicati molti su come Trump abbia potuto diventare l’uomo più potente del mondo. Il più controverso è ovviamente “What Happened” di Hillary Clinton (Simon & Schuster, New York). «Io davo discorsi per spiegare come risolvere i problemi del Paese e lui blaterava su Twitter». Tra i colpevoli della sconfitta indicati dalla ex candidata democratica non c’è solo Trump. Putin e Julian Assange ma anche l’Fbi, Barack Obama, il New York Times, Bernie Sanders e naturalmente lei stessa.
Abbandonare gli accordi presi dai presidenti che lo hanno preceduto, è diventata l’attività principale della politica estera di Trump: gli accordi di Parigi sul clima, sul nucleare iraniano, il Nafta e il Tpp, l’uscita dall’Unesco, la minaccia di lasciare la Nato e di chiudere l’ombrello nucleare sulla testa degli alleati, invitati a farsi le loro bombe. “Dottrina della revoca”, è la definizione di Richard Haass, un repubblicano internazionalista che ha lavorato nelle amministrazioni dei due Bush.
Rinunciare sistematicamente agli impegni presi è qualcosa d’incomprensibile a Washington, la capitale dell’impero che più di ogni altro nella storia – anche più di Roma – ha fondato il suo potere su un articolato sistema di alleanze. In un certo senso, la comunità dei think tank, degli intellettuali, dei diplomatici, degli internazionalisti – democratici e repubblicani – è l’unica “palude” washingtoniana che Trump sta cercando di prosciugare, come aveva promesso in campagna elettorale. Le altre – la lobby delle armi e quella dell’industria chimica diventata il “Big Tobacco” del XXI secolo – continuano ad assediare la collina del Campidoglio e prosperano più di prima.
Per la prima volta in 30 anni di ingressi negli Stati Uniti con un visto da giornalista, l’agente al controllo passaporti mi ha chiesto se lavorassi per un giornale conservatore o liberal. Come se diversamente da prima, ora contasse nella Washington contaminata dal populismo divisivo di Donald Trump. «Sette americani su dieci pensano che le divisioni politiche siano profonde come durante la guerra del Vietnam», scrive il giornale cittadino in un sondaggio condotto con l’Università del Maryland. Sempre secondo il Post, sette americani su dieci pensano che la Casa Bianca sia inefficiente e otto che lo sia anche il Congresso.
Nel suo “Free Speach and Tolerance Survey” il think tank libertario Cato Institute, qualche isolato più in là di Massachusetts Avenue, rivela che «tre quarti degli americani sono convinti che il politicamente corretto abbia impedito importanti discussioni necessarie alla società». Il 63% dei repubblicani dice che i giornalisti «sono un nemico del popolo americano» e il 58 dei democratici che i datori di lavoro dovrebbero punire i dipendenti che diffondono post offensivi su Facebook. Tutto questo nella città dove è stato scritto il Primo Emendamento.