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 2017  novembre 08 Mercoledì calendario

Le visioni di Cechov secondo Lev Dodin. «Aveva previsto tutto»

MILANO Arriva a Milano uno spettacolo imperdibile, che ha scosso il pubblico in molti paesi e firmato da Lev Dodin, maestro del teatro contemporaneo, tra i più riconosciuti registi al pari di Brook, Wilson, Strehler di cui è stato amico; l’artista che ha cambiato il nostro modo di guardare i grandi classici russi, a cominciare da Cechov (adesso sta lavorando a Dostoevskij: «Ma non si vedrà presto» annuncia). E proprio con l’ultimo capolavoro di Cechov, Il giardino dei ciliegi (in russo e con i sottotitoli), con la sua compagnia del Maly Teatr (in russo vuol dire “piccolo”) di San Pietroburgo capitanata da Ksenia Rappoport ( La sconosciuta di Tornatore, Il ragazzo invisibile di Salvatores), sarà dal 23 al Teatro Strehler.
«La forza sorprendente di Cechov è che quando scriveva questo testo prevedeva i grandi cambiamenti che sarebbero arrivati», spiega Dodin, 73 anni, che parla o dice di parlare solo in russo, «quattordici anni prima della Rivoluzione di ottobre aveva capito non tanto che una nuova classe, la borghesia commerciante, prendeva il posto della vecchia aristocrazia decadente, ma che sarebbero state entrambe spazzate via da una terza forza. Quando misi in scena il testo, la prima volta, nel ’93, poco dopo la caduta del Muro, anche noi sentivamo che qualcosa di nuovo stava arrivando, qualunque cosa fosse. Ma quando poi l’ho ripreso nel 2015, tutto era cambiato intorno a noi. Le nuove cose arrivate sono molto più spaventose di quelle che sono venute prima, e così anche lo spettacolo è cambiato».
Per Dodin la vecchia Russia era meglio degli sciacalli capitalisti arrivati oggi. «Ma non parlo solo di Russia», dice, «è il mondo che si è ammalato e le nostre speranze, tradite. Il Giardino oggi non è più il simbolo di un passato da superare, ma rappresenta il valore storico dell’umanità, quello che si può ancora salvare. Sa che mentre provavamo, volevamo vedere un vero giardino di ciliegi? In Russia non ce ne sono più. Ne abbiamo scovato uno vicino ad Amburgo, difeso dal suo giardiniere consapevole che, morto lui, andrà distrutto. Quel giardino rappresenta i valori etici dell’umanità. Chi lo custodisce è preso per sciocco, uno fuori dalla Storia. Ma la questione oggi è proprio conservare la nostra civiltà e i valori etici dell’umanità. E non sono ottimista: non riusciamo a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, proprio come Ljuba, Gaiev, Lopachin. Ma non spaventiamo lo spettatore. Non voglio che Il giardino provochi pensieri intelligenti, ma che sia appassionante vederlo». Per Dodin è soprattutto un grande dramma umano, di intrecci, relazioni, passioni e «di cento quintali d’amore»: è il teatro che diventa la vita come in tanti suoi altri spettacoli, diventati cult, da Fratelli e sorelle a Gaudeamus.
Al Piccolo, inoltre, darà il via al nucleo centrale delle iniziative in ricordo dei vent’anni dalla morte di Giorgio Strehler che per Dodin è stato «un grande e importante pezzo di vita». «Tutto iniziò proprio dal Giardino di Strehler che avevo visto in video e che mi aprì orizzonti nuovi di Cechov. Un maestro fantastico. Eravamo amici, non solo colleghi. Ma ogni tanto converso ancora con lui, durante le prove, mi fermo e penso a cosa avrebbe detto. Sono contento che il Piccolo abbia conservato il suo spirito, quel senso, come è da noi, di comunione per cui tutti partecipano allo spettacolo e che unisce i due Piccoli, di San Pietroburgo e Milano».