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 2017  novembre 08 Mercoledì calendario

Quella era la Svezia, una generazione sopravvissuta alla guerra

La Svezia non è sempre stata la buona maestrina che è adesso e che comunque ci spaventa. Per più di dieci anni, subito dopo la guerra, fu una delle squadre più forti al mondo, con una lunga serie di fuoriclasse: Gren, Liedholm, Skoglund, Hamrin, Gustavsson, soprattutto Nordahl. Nel 1948 vinsero le Olimpiadi di Londra, nel ’58 giocarono la finale del Mondiale contro il primo grande Brasile, ma l’epoca era già finita. Gren aveva 38 anni, Liedholm 37, Pelé solo 17, Altafini 21. Gli svedesi sono stati molto importanti per il calcio italiano. Eravamo un paese distrutto, la nostra statura media era sotto il metro e settanta, il peso intorno ai sessanta chili. Stavamo ricostruendo il paese in bicicletta e avevamo abbastanza fame. Ma c’era la voglia di inventare che spesso nasce quando la miseria diventa fantasia. Pensammo che quei ragazzi biondi, alti, così diversi, potessero essere un’occasione. Amavamo un’abbondanza che non avevamo. Non a caso al cinema fu l’epoca delle maggiorate, ci piaceva il tanto. Così si aprì una vera caccia agli svedesi e, per sintonia, anche ai danesi (gli Hansen, Ploeger eccetera). Arrivarono tutti mentre il Grande Torino moriva lasciandoci senza un’altra idea di calcio. Puntammo sulla loro diversità. Questo ottenne un ribaltamento del gioco. Eravamo sempre stati dei fantasisti, Meazza era stato il Messi di allora senza barare molto. Giocavamo di conseguenza palla a terra, in alto non sapevamo andare. Svedesi e danesi portarono questo, il gioco forte, fisico, e dalla loro altezza, il colpo di testa. Fummo costretti ad alzare la palla. Nacquero le centinaia di gol dei primi anni cinquanta, i record di Nordahl, 105 centimetri di torace e una velocità da centometrista. Ma anche l’intelligenza tattica di Liedholm e Gren, gli scatti di Hamrin, l’estro e voglia di vivere troppo di Nacka Skoglund. Nordahl fu il risultato di un tradimento. Il Milan aveva preso Ploeger, un danese che prometteva molto. Partì in treno dal suo paese, a Domodossola salì in carrozza il dirigente della Juventus Giordanetti che gli offrì 30 milioni contro i 25 del Milan. Ploeger accettò, il Milan rimase senza centravanti. Protestò molto. Gianni Agnelli capì di aver esagerato e chiese al suo concessionario in Svezia di acquistare un altro attaccante, Nordahl, che offrì al Milan. Ploeger segnò quell’anno un solo gol, Nordahl uno a partita. Arrivò a Milano il 22 gennaio del ’49, c’era la neve. Lui e sua moglie scesero dal treno in camicia di seta, erano convinti di essere arrivati nel paese del sole. Nordahl saltò la prima partita per influenza. Quella grande Svezia durò una sola generazione nonostante fosse così diversa da sembrare l’arcadia del nuovo calcio. Mi sono chiesto spesso perché quel successo così evidente in una nazione che poi ha sempre giocato benino, sempre in modo ordinato ma è stata normale fino alla noia. Mi sono dato una risposta disperata. In un’Europa che aveva lasciato sui campi della guerra venti milioni di ragazzi, gli svedesi erano stati fra i pochissimi giovani a non avervi partecipato. Gli unici sopravvissuti.