La Stampa, 7 novembre 2017
Nella terra di confine tra le due Coree: «Non abbiamo paura delle armi di Kim»
«A noi non importa nulla. Tanto se Kim decide di lanciare le bombe atomiche moriamo tutti, e non c’è niente che possiamo fare per fermarlo. Perciò andiamo avanti con la nostra vita normale, e abbiamo eletto un presidente pacifista che vuole il dialogo».
Kim Jong-shik, la guida che mi accompagna a visitare la zona demilitarizzata tra la Corea del Nord e quella del Sud, ha una storia emblematica. È nato nel 1953, anno dell’armistizio che regola i rapporti fra i due Paesi, tecnicamente ancora in guerra. Suo padre era nordcoreano, fuggito durante la guerra, e sua madre sudcoreana: «Ho ancora dei parenti a Pyongyang, ma non li ho mai conosciuti, perché è vietato». I figli di Kim, una ragazza di 18 anni e un ragazzo di 14, vivono in California con la madre. Lui e la moglie non sono separati, però pensano che sia meglio così per tutti. Lui dice ad alta voce quello che molti pensano: «Il problema è degli altri, la Cina, la Russia e soprattutto gli Stati Uniti, che lo stanno complicando con una retorica esagerata. Noi invece ci siamo abituati. Non abbiamo la sensazione di un pericolo imminente, o diverso da quello con cui conviviamo da oltre mezzo secolo. E non vogliamo la guerra, perché le vittime saremmo noi».
La Dmz è il monumento a una delle tante follie che gli esseri umani sono riusciti a compiere durante il secolo scorso. Lunga quasi 250 chilometri e larga 4, divide una terra che era stata unita per millenni, e due popoli uguali. In più separa le risorse naturali del Nord dall’ingegno imprenditoriale del Sud, compromettendo la crescita di un Paese che potrebbe essere molto ricco e prospero. La zona demilitarizzata è stata costituita lungo il 38esimo parallelo, che alla fine della Seconda guerra mondiale aveva segnato il confine artificiale tra la Corea occupata dagli americani e quella dei sovietici. Quando l’invasione lanciata dal Nord nel 1950 era stata respinta, è diventata la frontiera provvisoria definitiva. È punteggiata da torrette e filo spinato, eppure non ha impedito schermaglie, in cui nel corso degli anni sono morti almeno 500 soldati sudcoreani, 250 nordcoreani e una cinquantina di americani, inclusi i due ammazzati con l’ascia nel 1976 perché stavano potando un alberto che ostruiva la vista. In quel periodo, grazie alla delazione di un disertore, Seul aveva scoperto il primo dei quattro «Tunnel dell’aggressione», che oggi noi turisti possiamo visitare con l’elmetto in testa.
Le gallerie
Gallerie scavate da Pyongyang, in teoria per cercare il carbone, ma in realtà per trasferire 30.000 soldati all’ora oltre il confine, in caso di invasione. Due villaggi opposti si fronteggiano, Daeseong-dong costruito dai sudcoreani, e Kijong-dong dal Nord, ma Seul dice che è falso e non ci abita nessuno. È solo uno scherzo della propaganda, per dare all’esterno l’illusione della prosperità, mentre tutti gli alberi delle montagne vicine sono stati tagliati per sopperire alla drammatica crisi energetica di Pyongyang. I soldati di Kim filmano noi turisti che ci affacciamo, sperando di riprenderne qualcuno con i jeans stracciati alla moda, per dimostrare poi che sono dei poveracci ai loro concittadini. Di buono c’è solo che essendo disabitata, la Dmz è diventata un rifugio di speci animali rare, come le gru e forse la tigre siberiana.
Confine bollente
Seul però ha cercato di trasformare questo confine bollente in un’attrazione turistica, al punto che davanti al ponte diroccato di Imjingak, dove un tempo passava la ferrovia, ha costruito un lunapark per i bambini. Per arrivarci si percorre l’Autostrada della Libertà, e tornando indietro si passa su quella dell’Unificazione. A Munsan, paese di 30.000 abitanti a quattro chilometri dalle artiglierie convenzionali di Kim sempre cariche, ci fermiamo al Caffè Bene che promette un vero «gelato» italiano. Chun, un cliente che sorseggia il tè, non pare atterrito: «Paura? E perché? Sono cresciuto qui, fra i militari: cosa c’è di diverso adesso? Non lasciateci soli, perché la vita continua normale. Non scappate via, voi amici occidentali». A partire dall’Italia, che ha surplus commerciale da un miliardo con Seul.
Di diverso c’è che il giovane Kim sta lanciando missili ovunque, e molti si aspettano che farà un test anche per rovinare la visita del rivale americano Trump. Secondo uno studio del Congressional Resarch Service, 25 milioni di sudcoreani verrebbero colpiti da una eventuale guerra. Anche se Pyongyang non usasse le armi atomiche, con quelle convenzionali farebbe tra 30.000 e 300.000 morti nei primi giorni di scontri, visto che Seul sta ad appena 35 miglia di distanza.
Se il programma della visita non cambierà all’ultimo istante, Trump non verrà qui sulla Dmz. I suoi consiglieri hanno detto che ormai è un cliché, ma tutti in Corea pensano che il presidente Moon Jae-in, un liberal favorevole al dialogo, sia riuscito a tenerlo lontano per evitare provocazioni. Invece lo porterà alla base Humphreys, dove i soldati della 2nd Infantry Division lavorano con i sudcoreani di Katusa: un investimento da 10 miliardi di dollari, fatto per dimostrare che Seul non scrocca la difesa a Washington. Nelle stesse ore, cominceranno esercitazioni navali congiunte. Poi però lo condurrà al Cimitero Nazionale, dove riposano i resti del predecessore Kim Dae-jung, che aveva ricevuto il Nobel per la pace con la sua «Sunshine policy».
Le intenzioni di Kim
Secondo un sondaggio condotto ad ottobre, solo il 38% dei sudcoreani pensa che Trump possa aiutare la pace, mentre il 57% lo teme. Fonti diplomatiche rivelano che la vera preoccupazione di Seul non è la guerra militare con Pyongyang, ma quella commerciale che potrebbe scoppiare con gli Usa, se il capo della Casa Bianca insistesse sul tema del deficit negli scambi bilaterali, rovinando un’economia prospera che è l’arma più importante per convincere i nordcoreani a scaricare il loro regime. Il vero enigma sono le intenzioni di Kim, su cui esistono due scuole di pensiero. Una sostiene che si comporta in maniera aggressiva per garantire la sua sopravvivenza, cosa che aprirebbe uno spiraglio alla trattativa finora rifiutata, anche grazie alle sanzioni, su cui l’Italia svolge un ruolo chiave con la presidenza della commissione che le applica. L’altra invece teme che voglia cambiare gli equilibri sul terreno, e ciò invece aprirebbe la strada allo scontro. Il mese scorso, comunque, Kim Jong-shik ha portato il figlio, in visita dalla California, ad inginocchiarsi davanti alla campana della pace di Imjingak: «Non deve dimenticare quanto abbiamo sofferto, e quanto è preziosa la pace che comunque siamo riusciti a costruire».