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 2017  novembre 07 Martedì calendario

L’omaggio del mondo al maestro Andrea Pirlo

Il sipario sulla sua straordinaria carriera è sceso senza speciali cerimoniali. Anche perché l’incertezza del risultato non lo consentiva: nonostante la vittoria per 2-0, il New York City è stato eliminato dai playoff, ma con una rete in più avrebbe proseguito la corsa «scudetto». L’allenatore Patrick Vieira ha concesso ad Andrea Pirlo una passerella finale lunga pochi spiccioli di partita: dal novantesimo al termine del match. Nessun video celebrativo, solo un intero giro di campo dentro lo Yankee Stadium, uno degli stadi monumento d’America. Pubblico in piedi, applausi e le sciarpe «Grazie Pirlo» al vento. Negli Usa sono professori di marketing: sanno come esaltare il giocatore e il personaggio. Al suo arrivo nel luglio del 2015 stamparono su migliaia di magliette la scritta «No Pirlo, no party», una frase diventata presto celebre, e s’inventarono il suo nuovo soprannome: «Maestro». In italiano. Ogni volta che il Maestro si presentava alla bandierina per battere un calcio d’angolo era una standing ovation. Per questo quando Andrea ha percorso domenica sera quel giro d’onore ha congiunto le mani: per ringraziare e per il rammarico di un’ultima stagione poco produttiva, causa un ginocchio ormai senza cartilagine.

A MODO SUO Perché Pirlo non è solo un genio sul campo, è un uomo intelligente: conosce i suoi limiti e le regole del gioco. Quando dopo la sconfitta in finale di Champions del 2015 a Berlino arrivò negli Usa, abbandonando un anno di contratto con la Juve, disse: «Ho preferito andarmene io, prima che fossero gli altri a mostrarmi la porta». E nessuno faccia insinuazioni sui possibili rapporti guasti con Allegri, il tecnico che avrebbe preso il posto di Conte e che quando lo allenava al Milan lo vedeva poco. In cuor suo, Andrea sapeva che a 36 anni non avrebbe più potuto essere protagonista e che avrebbe rischiato di trascorrere un po’ di tempo in panchina. Oggi se ne va per la stessa ragione, senza rimpianti e broncio. Fu con grande serenità che all’inizio di ottobre ci confessò la sua scelta: «Ogni giorno ho problemi fisici, non riesco più ad allenarmi come vorrei perché ho sempre qualche acciacco. A 38 anni ci sta di dire basta. Non è che puoi andare avanti per forza fino a 50: farò qualcos’altro». Non ha ancora pensato a che cosa sarà quel qualcos’altro. Qualcuno dice che potrebbe trovare impiego alla Juve come ambasciatore, altri che potrebbe diventare il vice di Conte o andare ad allenare. «Allenare? Deve scattarti una scintilla. A me non è ancora scattata», ci raccontò. Ci penserà dopo essere rientrato in Italia a dicembre, alla scadenza del contratto con il New York City. «Intanto, mi dedicherò a famiglia, golf e tennis».

INVENZIONI Resterebbe a parlare di tattica per ore. Ha avuto un campionario di allenatori lungo come una Avenue newyorkese, inclusi i tanti c.t. in Nazionale. Vuole sinceramente bene a tutti: «Perché tutti mi hanno insegnato qualcosa: da Lucescu che ha iniziato a portarmi in prima squadra con il Brescia a 15 anni fino a Conte». Ma ricorda volentieri soprattutto l’amico Carlo Ancelotti, con cui ha vinto tutto e tanto, Carletto Mazzone e Conte, appunto. Per gli ottant’anni di Mazzone ci disse: «È stato il primo tecnico a farmi giocare davanti alla difesa. Mi spiegò che secondo lui ero come Falcao e che quindi mi voleva lì, con Baggio più avanti. Fu una grande intuizione». Già perché il Pirlo trequartista all’Inter ha lasciato tracce poco profonde. È stato nel ruolo di regista a diventare il Maestro. Anzi, il Metronomo. Come lo chiamarono nel Milan di Ancelotti a cui tutti attribuiscono il merito di quel colpo di genio. Invece quel colpo di genio era stato di Mazzone, in quei pochi mesi che Andrea trascorse al Brescia nel 2001 (dopo aver cominciato la carriera nel club da 16enne), a fianco di Baggio e Guardiola. «Avere in spogliatoio accanto a me quei due fenomeni mi aveva fatto imparare tantissimo e guadagnare in autostima», ci raccontò.

AMMIRATORI Qualche anno prima era stato proprio Baggio a segnalare ai media quel ragazzino della Primavera bresciana. Fu a margine di un’amichevole con i giovani del Brescia, giocata a porte chiuse fra le proteste dei giornalisti lasciati fuori dai cancelli. Alla fine il Codino abbassò il vetro del suo Suv e disse poche parole ma forti: «Ragazzi, là dentro c’è uno che tira le punizioni meglio di me». Si riferiva a Pirlo. Poi fu l’allenatore dell’Inter Gigi Simoni a benedire quel ragazzo con il volto spesso privo di espressione. Nell’estate del ’98, l’Inter aveva appena giocato un’amichevole prestigiosa contro il Liverpool del talentuoso Michael Owen, il fenomeno del momento, ma tutti erano rimasti incantati dai colpi magici del ventenne italiano. Nella sala d’aspetto dell’aeroporto inglese, Simoni disse: «Mi ricorda Rivera».

SECONDA VITA Invece che pressioni, ad Andrea quei complimenti trasmettevano fiducia. Nel calcio non basta avere i piedi educati, ci vogliono anche nervi saldi. È la differenza fra un ottimo giocatore e un campione. E occorre pure un pizzico di fortuna. Perché quando la sua storia rossonera era avviata sul viale del tramonto e a 32 anni pochi pensavano che potesse ancora incidere, arrivò la proposta della Juve. Disse allora Ancelotti, che lo ha allenato per 8 delle sue 10 stagioni milaniste: «Forse voleva più soldi e il Milan non glieli voleva dare. È andato a prenderli alla Juve». È in bianconero che da calciatore forse un po’ provato dalla gestione Allegri a Milano tornò prepotentemente in cattedra. Quando Buffon apprese la notizia di averlo come prossimo compagno di squadra esclamò: «Allora, Dio esiste!». E con Andrea in regia la Juve ricominciò a vincere dopo Calciopoli. Oggi Pirlo consegna a Conte i gradi del migliore: «La sua cura dei particolari è impressionante. Una sua lezione di 20 minuti al video vale tre giorni di allenamento: capisci subito al volo che cosa devi fare. Negli anni poi è progredito, con questa voglia di vincere e fare tutto al massimo. È in assoluto uno dei più bravi». L’America è stata una scelta di vita: per giocare senza stress, per imparare una lingua e fare un’esperienza diversa. Dopo due campionati e mezzo, ecco la fine. Al momento dell’addio, Kobe Bryant pronunciò due parole rimaste celebri: «Mamba Out». Andrea ha preferito un lungo tweet di ringraziamenti come fossero i titoli di coda di un film da Oscar.