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 2017  novembre 06 Lunedì calendario

Nerio Nesi, ex dirigente dell’azienda Olivetti: «Cuccia non capì la grandezza di Olivetti. E il gioiello si sfaldò»

Era il 1963. Dopo la morte di Adriano Olivetti, avvenuta nel febbraio del 1960, l’omonimo gruppo industriale di Ivrea era alle prese con i contrasti insorti tra i vari rami della famiglia che possedevano il pacchetto azionario di maggioranza dell’azienda del Canavese. Nerio Nesi, futuro banchiere ed esponente di primo piano della sinistra lombardiana del Partito Socialista, all’epoca dirigeva i servizi finanziari dell’industria piemontese leader nel settore delle macchine per scrivere e di calcolo. Un giorno venne incaricato da Roberto Olivetti, figlio di Adriano, di andare a Milano, in via Filodrammatici, da Enrico Cuccia, padre padrone di Mediobanca, sancta sanctorum del capitalismo italiano, per illustrargli la situazione della società.
Racconta lo stesso Nesi: “Andai e spiegai al famoso dottor Cuccia che cos’era l’impresa Olivetti, la sua peculiarità, il suo ruolo, il futuro dell’elettronica”, su cui Roberto Olivetti voleva puntare con forza. “Mi accorsi – prosegue Nesi – dopo pochi minuti, che questi argomenti non lo interessavano per nulla e che mi ascoltava con noia sempre più palese, quasi con fastidio”. Commenta l’ex presidente della Bnl: “Mi avevano insegnato che compito del banchiere è far lievitare le risorse latenti a livello imprenditoriale. (…) Evidentemente non è sempre così e ne ebbi la riprova qualche anno dopo, quando la finanziarizzazione divenne la linea generale dell’economia”.
L’aneddoto sull’incontro con il dominus di via Filodrammatici, con l’uomo che non ritenne di avvertire l’avvocato Giorgio Ambrosoli delle minacce di morte profferite da Michele Sindona, è uno dei passi del suo libro Le passioni degli Olivetti(edito da Nino Aragno), con una introduzione di Giuseppe Berta. Nesi lo ha voluto dedicare ai principali protagonisti dell’avventura imprenditoriale, ma anche politica e culturale, dell’azienda di Ivrea: Camillo Olivetti, il fondatore; Adriano, l’utopista, il teorizzatore di una terza via fra capitalismo e socialismo; e i suoi figli Roberto e Laura. Di Adriano Olivetti, il creatore del movimento di Comunità, è stato scritto molto. Nesi aggiunge ricordi e riflessioni che inquadrano con vividezza la “utopia concreta” di un imprenditore, di un politico, di un sociologo e di urbanista, che si batteva “affinché l’uomo trovasse nel lavoro uno strumento della sua dignità e non un congegno di sofferenze”. Particolarmente illuminante è il capitolo su Roberto Olivetti, morto ad appena 57 anni, nel 1985.
Come è noto, oggi l’Olivetti non esiste più. Avrebbe invece potuto diventare, negli Anni Sessanta, un colosso mondiale dell’informatica, se nell’elettronica e nelle idee del figlio di Adriano avessero creduto il capitalismo italiano, soprattutto quello di Stato, i politici e i manager che furono insediati nel 1964 alla Olivetti, in crisi finanziaria, come il repubblicano Bruno Visentini, a quei tempi vicepresidente dell’Iri. Scrive Nesi, citando le parole di Giorgio Fuà, fondatore dell’ufficio studi della Olivetti e poi collaboratore di Enrico Mattei: Roberto Olivetti “fu messo in disparte da Visentini in malo modo. Egli puntava sull’informatica in cui vedeva la via del futuro. Visentini non lo capì e stroncò tutto. Tagliò il ramo verde”. A queste incomprensioni, non solo da parte di Visentini, non furono verosimilmente estranee le pressioni del mondo industriale degli Stati Uniti, che venivano tradotte e diffuse dall’ambasciata Usa di Roma. Si temeva, oltreoceano, una Olivetti troppo forte, come si era temuto il pericolo di una politica energetica italiana troppo autonoma, tanto da eliminare fisicamente nel 1962 Enrico Mattei, il presidente dell’Eni? Più che possibile, anzi: assai probabile. Certo è che il rapporto fra il figlio di Adriano Olivetti e Visentini, che era stato nominato al vertice della società dal cosiddetto gruppo d’intervento (Fiat, Pirelli, Imi,Centrale, Mediobanca), fu sempre difficile, teso. Ricorrendo alla memoria di Elserino Piol, un importante dirigente della società canavesana, Nesi narra un episodio del 1968. Si tratta di una riunione nello Stato di New York, cui presero parte lo stesso Piol e Roberto Olivetti, che sostenne che “la società Olivetti avrebbe dovuto chiudere i progetti basati sulla meccanica perché i componenti elettronici avrebbero permesso un grande salto di efficienza e di produttività”.
Al ritorno in Italia, “Piol fu chiamato da Visentini che gli disse: ‘Mi hanno riferito della riunione a Terrytown e mi stupisco che Lei abbia sostenuto Roberto nella sua fuga in avanti verso l’elettronica’”. La “risposta di Piol fu chiara: ‘Lei ha ragione nel dire che ho fatto errori di valutazione, ma l’errore consiste nel non avere detto nel 1964 quello che ho detto oggi nel 1968. Oggi la fine delle macchine a logica meccanica è fin troppo evidente: la meccanica sarà confinata a funzioni periferiche’”.
La sconfitta dei progetti di Roberto, come prima quella dell’utopia di Adriano, del suo sogno di uno “stato sociale”, di una alleanza fra imprenditori e lavoratori, è la sconfitta della possibilità di dare vita a un’altra Italia. Conclude Nesi: “Il disinteresse del governo italiano per la sorte della Olivetti informatica, l’assassinio di Enrico Mattei (certamente eseguito dalla mafia, non si è mai saputo per ordine di chi), il tentativo, fallito, di Felice Ippolito di creare una politica energetica competitiva basata sull’alternativa nucleare, costituirono sconfitte tremende per la politica industriale di grande livello e di grandi ambizioni, nella quale mi riconoscevo”.