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 2017  novembre 06 Lunedì calendario

Intervista a Marino Bartoletti: «Quelli che il calcio è irripetibile. Il mio Fazio era un’altra storia»

I baffi neri sono sempre loro, così come il sorriso impercettibile, la giacca scura e il tono della voce di chi ti sta per raccontare una storia affascinante. In questo Marino Bartoletti è una certezza. E rientra alla perfezione in quel ristretto nucleo di personaggi della tv, per i quali è facile confondere i piani, quando realtà e finzione si aggrovigliano, il televisore è un elemento centrale del salotto, e chi è dentro lo schermo veste il ruolo di membro allargato della famiglia al quale domandare. “Il desiderio del pubblico di ascoltare certe storie l’ho scoperto anche grazie ai social, i successivi like, le condivisioni, le richieste delle persone. Non me lo aspettavo. È bello”; talmente bello da ispirare il suo ultimo libro, Bar-toletti: così ho sfidato Facebook. Vuol dire immagini personali associate a “post”, i suoi incontri, le passioni. Calcio. Musica. Ciclismo. Pantani e Maradona. De Andrè e Gullit.
La sua carriera inizia con uno dei guru del giornalismo: Gianni Brera.
Avevo poco più di vent’anni ed entro dentro nel Tempio dello sport: il Guerin sportivo. Felice e stordito trovo una redazione composta da giornalisti e collaboratori importanti: oltre a Brera c’erano personalità come Luciano Bianciardi.
Però, Brera…
Ho ancora in testa il suo battere sulla Lettera 22, aveva delle dita importanti e il ticchettare sulla tastiera si diffondeva per la redazione; accanto a lui un fattorino silenzioso e intimorito aspettava le pagine, che puntualmente e sacralmente venivano portate in tipografia. Una a una.
E lei?
Zitto. Pensavo: “Non mi degna di uno sguardo”. Tornavo a casa avvolto dal suo fumo: a rotazione, o a caso, accendeva un Toscano, la pipa, le Gauloises.
Cosa le ha insegnato Brera?
Ci ho pensato per anni, alla fine sono arrivato a una conclusione: il lavoro del giornalista non si insegna, ma si può imparare. Detto questo, Gianni ha l’onore di aver sdoganato l’informazione sportiva, di aver inserito il pallone dentro un ambito culturale; di aver contaminato il suo linguaggio, lo ha arricchito, elevato il verbo. E mi ha trasmesso la permeabilità degli elementi, a patto di approfondirli.
Non c’è il “caso”…
Bisogna essere responsabili di quello che si comunica. Non esiste solo Wikipedia, non ci si può basare su una pagina Internet non garantita.
Oggi manca un fuoriclasse alla Brera.
Però ci sono colleghi bravissimi come Gianni Mura, Gigi Garanzini e Roberto Beccantini: sono una triade inarrivabile. Poi Maurizio Crosetti.
Nei primi anni Ottanta, lei era al “Processo del lunedì” con Biscardi…
Con Aldo il debito di riconoscenza deve esistere, anche se il suo linguaggio, a partire dai congiuntivi, non era vicino al mio (silenzio). Con lui non ho mai capito se certi formule lessicali erano intenzionali o preterintenzionali; era talmente innamorato del suo personaggio da diventare la macchietta di se stesso.
Culturalmente non era impreparato…
Anzi. Aveva sulle spalle un background forte, solido, associato a un talento animale: Aldo ha portato nel giornalismo televisivo la trasposizione della commedia dell’arte, con personaggi e maschere.
Risultato vincente.

Parlava alla pancia dei telespettatori, ha tramutato in volti noti gli oscuri giornalisti della carta stampata.
Lei si divertiva?
Sì, ero preda della forza dell’incoscienza.
Lei ha ideato, scritto e fondato “Quelli che il calcio”.
Anni irripetibili, ci divertivamo come folli e funzionava.
In occasione dei 25 anni dalla prima puntata non è stato citato nè invitato in trasmissione. E lo ha manifestato…
Ho voluto puntualizzare la vericidità di quella storia: da cosa è sbocciata l’intuizione, grazie a chi, e come.
“Grazie a chi e come”?
Andai dall’allora direttore Angelo Guglielmi, e gli presentai un progetto nel quale cercavo di portare in tv la radio, volevo decriptare Tutto il calcio minuto per minuto, materializzare quelle voci che per decenni ci avevano accompagnato la domenica.
Le ha raccontato di un progetto scritto su una paginetta…
Parte dell’abstract era: un extracomunitario colto, appassionato di una grande squadra.
Lo juventino Idris.
Trovato grazie a Paolo Beldì (il regista), mentre per scovare Suor Paola (tifosa laziale) abbiamo girato non so quanti conventi e parrocchie.
Come ha detto prima, vi divertivate.
Ricordo quando Teo Teocoli si presentò in studio con la parrucca da Cesare Maldini: Fazio iniziò a ridere, e tra i singhiozzi mi fece cenno di continuare, non era in grado.
E lei?
Ero piegato in quattro per le risate.
L’Auditel premiava.
Il primo anno siamo arrivati al 20 per cento di share, quando la direzione non credeva neanche al 10.
Il gruppo ha dato il meglio.
In molti hanno espresso le loro più alte potenzialità, un po’ come avvenuto con Arbore e Quelli della notte.
Come mai il suo addio?
Dopo l’abbandono di Fabio, come sostituto avevo indicato Claudio Bisio, loro preferirono Simona Ventura: il messaggio mi fu chiaro.
Oggi le piace la trasmissione?
Luca e Paolo si difendono, anche Savino non è stato male.
La sua esperienza a Mediaset?
Nata nel 1990 dopo una telefonata del grande seduttore.
Berlusconi.
Voleva creare una importante redazione sportiva, così gli dissi: “Prima deve acquistare i diritti di Formula1 e Giro d’Italia”. Una botta per la Rai.
L’ha presa nonostante i baffi: li detesta.
E ogni lunedì, dopo Pressing (programma sportivo della domenica sera), mi chiamava e criticava la cravatta e proprio i baffi. Arrivò a spedirmi una foto ritoccata al computer per dimostrarmi che senza sarei stato meglio.
Lei ha resistito.
Solo io e Maurizio Costanzo. Anche Gullit ha ceduto.
Tra i suoi “post” sul libro, uno è per Roberto Baggio.
Persona straordinaria, non è un bluff: è arrivato a festeggiare i suoi 50 anni ad Amatrice e senza tanto clamore, solo per amore delle persone. Uno così va solo ammirato.
Chi altro l’ha colpita?
Alessandro Del Piero: mi ricordo ancora quando si presentò a Quelli che il calcio con i genitori; il padre una persona semplice e solida.
Fazio di oggi le piace?
Resta uno dei migliori, ma allora era un’altra storia. Ma continuo a volergli bene.