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 2017  novembre 06 Lunedì calendario

Risparmi Tar tassati

Il risparmio italiano è ben gestito e a costi competitivi? Un interrogativo che L’Economia rilancia pressoché a ogni numero sottolineando la necessità che gli italiani siano più attenti al loro portafoglio e i gestori e le reti un po’ meno ai loro guadagni. Si tratta di una grande questione nazionale appena affrontata alla recente Giornata del Risparmio, che è scivolata via nella più tradizionale delle prassi. È un dibattito destinato a prendere corpo. A diventare di stringente attualità con la nuova normativa europea Mifid2 che entrerà in vigore il prossimo anno. I clienti delle gestioni patrimoniali riceveranno, a fine 2018, il dettaglio dei costi sostenuti, in percentuale e in valore assoluto, per investire al meglio (spesso al peggio) i loro risparmi. E se ne vedranno delle belle o, più facilmente, delle brutte.
La questione
Abbiamo già discusso in precedenti articoli dell’insostenibilità di extracosti, come le commissioni di incentivo o di performance e quelle di entrata. O altre che riguardano prodotti previdenziali per i quali non vi è più da tempo alcun vantaggio fiscale. Non è tollerabile, a nostro giudizio, che si superi tranquillamente il 4 per cento di commissioni nel far ruotare, a volte inutilmente, il patrimonio di clienti, ignari di essere oggetto di politiche societarie di «estrazione» più che di promozione del valore. Non è un atto di accusa nei confronti di un settore fondamentale dell’economia, come l’industria della gestione del risparmio, ma uno stimolo ai migliori, e sono tanti, affinché non siano complici dei peggiori, che non sono pochissimi. E un sommesso richiamo ai regolatori, non particolarmente occhiuti.
Alcuni dati in più, rispetto a quelli che già conosciamo su intollerabili pratiche di costo, possono essere utili a un discussione serena. Il primo e più significativo riguarda una tendenza in atto nei mercati maggiormente evoluti, per esempio gli Stati Uniti. Gli investitori privilegiano sempre di più i fondi passivi, che in Italia sono ancora scarsamente diffusi e conosciuti – costituiti per esempio da Etf – rispetto alle gestioni attive dei fondi comuni, dei mutual fund. I primi sono decisamente più a buon mercato se si pensa che negli Stati Uniti un Etf, che replica i titoli azionari dello Standard &Poor’s 500, costa lo 0,03 per cento. In Italia un prodotto analogo è un po’ più caro, siamo intorno allo 0,7 per cento, ma vi sono pochi incentivi, da parte di banche e reti, a collocarlo. In Svizzera, dove il sistema pensionistico integrativo è forte – e per sua natura attento ai costi – la presenza di fondi passivi ha ormai una penetrazione intorno al 50 per cento.
Le tendenze
Il gigante mondiale del risparmio gestito Vanguard, il cui fondatore Jack Bogle è l’ideatore dei fondi passivi, nel 2016, secondo Morningstar, ha incrementato il suo patrimonio gestito, negli Stati Uniti, di 277 miliardi di dollari. Sostanzialmente con i «passivi» raccoglie un miliardo al giorno. E si appresta ad aggredire il mercato italiano. Fidelity ha diminuito il patrimonio gestito, sempre negli Usa, di 23 miliardi, subendo un‘emorragia sugli attivi di 60 miliardi solo in parte compensata dalla crescita dei passivi. Anche Franklin Templeton ha fatto registrare una diminuzione cospicua (42 miliardi). Secondo il factbook di Investment Company Institute, i fondi comuni di investimento aperti, ovvero mutual e institutional fund, valgono a livello globale, a fine 2016, poco più di 40 mila miliardi, di cui 3 mila 500 in Etf. In Europa, area nella quale l’industria del risparmio è raddoppiata come valori trattati in dieci anni, poco più di 14 mila miliardi. L’Europa ha solo il 16 per cento del mercato mondiale degli Etf.
Dietro questo cambiamento di scenario, che non potrà non riguardare presto anche l’Italia, ci sono molti fattori. Ma uno, in particolare, è decisivo. La trasparenza sui costi e sulle reali performance stimola la concorrenza e svincola il risparmiatore da una tutela eccessiva dei gestori. Il favore crescente dei fondi passivi è determinato anche dalle difficoltà da parte delle gestioni attive, di battere il benchmark, ovvero il loro obiettivo di riferimento. Secondo uno studio annuale di Standard and Poor’s e Dow Jones, l’83 per cento dei fondi globali attivi, anche su un arco di tempo di 15 anni, non fa meglio dei vari indici di riferimento azionari. C’è poi il caso dei fondi closet indexer, che si pongono a metà strada tra attivi e passivi, ma che di fatto in gran parte seguono gli indici. In sintesi, replicano gli Etf ma con commissioni piuttosto elevate. A livello globale i closet indexer pesano per circa il 20 per cento. In Italia molto di più. E dunque con un lievitare dei costi che grava sulla clientela. Il mutamento dello scenario competitivo nell’asset management ha comportato negli Stati Uniti una significativa riduzione delle commissioni che, dal 2000 al 2016, sono passate dall’1 per cento allo 0,63 per cento in media, tenendo conto dei costi di gestione, amministrazione e distribuzione, esclusi eventuali oneri di ingresso e di uscita. L’Europa, in base a una ricerca di Morningstar, a fine 2016 è intorno all’1 per cento, con l’Italia all’1,42 per cento. La Svizzera, tanto per fare un raffronto, è allo 0,62 per cento. Se soltanto guardiamo invece ai fondi attivi, la differenza fra le commissioni applicate nel nostro Paese e quelle nella media degli altri, è ancora più rilevante. Uno studio accademico del professor Martijn Cremers, pubblicato su Journal of Financial Economics, stima i costi italiani al 2,59 per cento contro l’1,66 in media a livello internazionale.
L’arrivo della Mifid2 è destinato a lanciare anche in Italia la figura del consulente finanziario, già largamente diffusa in America. Il consulente è pagato dal risparmiatore e non dovrebbe avere percentuali sui prodotti collocati. Il suo ruolo è diverso da quello del promotore o del distributore monomandatario. Il successo dei fondi passivi si deve anche all’affermarsi di questo nuovo intermediario. La tendenza di alcuni gestori a mettersi in proprio è vista come un pericolo da parte soprattutto delle banche che tendono a imporre onerosi patti di non concorrenza. Il quesito di fondo è poi legato alla reale indipendenza di questi nuovi protagonisti del risparmio gestito. In attesa della nuova normativa, non sarebbe disprezzabile – come sta già avvenendo da parte delle società più attente – uno sforzo di maggiore e immediata trasparenza sui reali costi delle gestioni, in modo da togliere la pessima impressione che molti clienti hanno di essere prigionieri corteggiati di un mercato sicuramente ricco solo per coloro che ne detengono le chiavi.