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 2017  novembre 05 Domenica calendario

Nel vino dell’eretico Mario Soldati il destino dell’Italia gastronomica

Un viaggio, anzi tre, nella geografia culturale del vino italiano. La riedizione del libro di Mario Soldati, Vino al vino (Bompiani, pp 826, euro 26) non ha nulla a che spartire con le moderne guide enogastronomiche. E non solo perché viene da un tempo lontano. Ma perché colloca il racconto dei vini e delle loro caratteristiche in un contesto antropologico e culturale stringente. Non c’è vino che possa prescindere dal suo creatore, dal vignaiolo che ne ha curato i grappoli. Né, tantomeno, dal territorio in cui nato e si è affermato. 
«Il vino», scrive Soldati a scanso di equivoci, «è come la poesia, che si gusta meglio, e che si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo». E ancora: «La nobiltà del vino è proprio questa: che non è mai un soggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere, o due o tre, di una bottiglia che viene da un luogo dove non siamo mai stati». 
Il volume dà conto di tre viaggi compiuti dall’autore tra la fine degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo, pubblicati come reportage su Grazia i primi due compiuti tra il ’68-’69 e il ’70-’71, mentre il terzo, che risale al ’75, finì su Epoca
Soldati compì un gigantesco lavoro di documentazione sul campo. I tre viaggi sono frammentati infatti in svariati itinerari che si snodano praticamente per tutto lo Stivale. E proseguono fino in Sicilia e Sardegna. E dire che nell’introduzione alla prima edizione del volume, l’autore dichiara di considerarsi «del vino, un amatore inesperto», salvo ammettere: «è vero, i viaggi d’assaggio che racconto (...) mi hanno istruito un pochino; ma il loro risultato più apprezzabile è stato di misurare, dopo anni di esperienze enologiche, quanto sia vasta ancora la mia ignoranza, e l’arte del vino quanto difficile». 
E infatti la grandezza del volume, sta proprio nel suo non essere una guida, bensì un resoconto meticoloso e mai scontato, dei viaggi d’assaggio che condussero l’autore da Pachino, in Sicilia, a Tirano, pochi chilometri dal confine con la Svizzera. Ogni tappa è il racconto di un diverso nettare di Bacco, assaggiato, gustato e spesso scoperto in quel momento, assieme alle vigne da cui proviene e ai vignaiuoli che ne hanno amorevolmente coltivato le uve per vinificarle sapientemente. 
Il successo dei tre reportage sta forse proprio nel racconto della geografia enologica italiana, fatta non da un «grande esperto» ma da un semplice «viaggiatore curioso», che bussa a decine di cantine non alla ricerca dell’etichetta rinomata e pubblicizzata, ma del vino sincero, genuino. Frutto di una poesia della terra e degli uomini che la coltivano che è in definitiva unica e irripetibile. Talmente irripetibile da giustificare differenze anche importanti fra un’annata e l’altra del medesimo prodotto. Quel che oggi sarebbe ritenuto una sciagura, la mancanza di omogeneità, da Soldati era ricercato come l’indizio principale di genuinità. E gli «assaggi» sono quanto mai estemporanei. Nulla che assomigli lontanamente con le degustazioni a cui ci hanno abituati gli attuali profeti del vino. Nulla di aulico. Si va dal Terrano, figlio del Carso «potentemente affettuoso, bevuto su tutta una serie di minestre, cioè jota, bobici e sui radicchi coi fagioli e sul pollo fritto». Per arrivare ai rossi dell’Oltrepò Pavese, che «di regola sono densi. Spessi, spumosi, quasi dolci al primo assaggio, ma poi rivelatori di un fondo gradevolmente amarognolo che sul posto chiamano ammandorlato». Fino agli uvaggi impegnativi della Toscana, come il Chianti classico e il Brunello. E poi via via in una sequenza di medaglioni mai uguali a loro stessi, il Barbaresco e il Grignolino in Piemonte, i bianchi del Collio in Friuli, il Montepulciano d’Abruzzio, lo SciacTrac delle Cinque Terre che ora chiamano Sciacchetrà. 
Per ogni bottiglia c’è un personaggio che la racconta, la presenta e ne diviene l’unico depositario del significato antropologico ultimo. Così c’è Pasqualino Sala, il tabaccaio di Montevecchia, nel Meratese, che diviene l’unico testimonial (diremmo oggi) del «vino di Milano», il Montevecchia appunto; c’è il piacentino Italo Testa grande intenditore di vini del preappennino che accompagna l’autore negli assaggi di Malvasia e Gutturnio. E poi ci sono i tre fratelli Michele, Fabrizio ed Emanuele Cirillo Farrusi che a Cerignola producono un Torre Quarto «leggendario». Tutti personaggi irripetibili, schivi e sconosciuti ai più. Come i vini che li accompagnano.