La Stampa, 5 novembre 2017
Dighe, canali e invasi incompiuti nell’Italia che frana o soffre la sete
Per costruire il Canale Cavour, che in virtù dei suoi 83 chilometri di alveo, dei 101 ponti e 210 sifoni è ancora oggi l’opera idraulica più importante d’Europa, nel 1863 servirono appena 3 anni. La diga sul fiume Melito, invece, a 27 anni dal primo appalto è completata appena per il 10%. Quello calabrese, però, non è che l’esempio più eclatante (e scandaloso) dell’inerzia con cui l’Italia affronta da sempre l’emergenza idrica ed i problemi del dissesto idrogeologico, continuando a lesinare fondi nonostante siccità e disastri ambientali provochino anno dopo anno danni per miliardi. Ma non è certamente l’unico. Secondo l’Anbi, l’Associazione nazionale che raggruppa i 151 consorzi di bonifica italiani, nel nostro Paese ci sono infatti ben 35 opere idrauliche grandi e meno grandi rimaste incompiute: nuove dighe, invasi, opere di canalizzazione e sistemazione idraulica, bloccate innanzitutto da mancanza di risorse (in alcuni casi anche poche centinaia di migliaia di euro), da cause legali e contenziosi di ogni tipo, dal fallimento delle imprese appaltatrici e da quelli che vengono definiti «stucchevoli burocratismi» come mancati collaudi ed espropri rimasti in sospeso.
Una crisi strutturale
«L’estate appena trascorsa – è scritto nel rapporto 2017 dell’Anbi – ci ha lasciato con una siccità e successive alluvioni che entreranno nella storia dell’Italia, per i danni causati all’economia complessiva del Paese, ai cittadini, al made in Italy agroalimentare». Ed il conto finale, stando alle stime di Italiasicura, la struttura di Palazzo Chigi che si occupa di dissesto idrogeologico, è davvero alto: sfiora i 6 miliardi di euro, in gran parte a carico dell’agricoltura. Ben 12 Regioni, ricorda l’Anbi, «hanno chiesto, ed alcune ottenuto, lo stato di calamità naturale. Milioni di euro sono stati spesi per operare in emergenza, per riparare e ristorare danni quando invece sarebbe possibile agire in prevenzione, risparmiando e creando sicurezza e bellezza. Ci apprestiamo all’inverno e senza fare alcuna previsione su cosa non accadrà o il suo contrario, possiamo affermare, senza timori di smentite, che sarà una stagione caratterizzata da quei cambiamenti climatici che sempre più si manifestano con eventi estremi», ed è per questo che l’associazione delle bonifiche continua il suo pressing sul governo. «Perché occorre chiudere i conti col passato e cominciare a guardare avanti e cercare di porre rimedio ad una crisi che ormai è strutturale», spiega il presidente Francesco Vincenzi.
Sette anni difficili
In 7 anni, dal 2010 ad oggi, in Italia le disponibilità idriche – secondo le stime dei consorzi di bonifica – si sono praticamente dimezzate: a settembre 2017 (il più recente dato disponibile) nei bacini lungo la penisola erano infatti presenti 1.066 milioni di metri cubi d’acqua contro i 1.512 dell’anno scorso, i 1.730 del 2015 e i 2.317 milioni di metri cubi del 2010. Anche i dati dei bacini artificiali settentrionali, dove il fenomeno è particolarmente accentuato, confermano la drammaticità dell’emergenza idrica: attualmente trattengono circa 2 milioni e mezzo di metri cubi contro gli 11 dell’anno scorso, i 10,70 del 2017 ed i 18 milioni di metri cubi del 2010. A questi dati vanno aggiunte le risorse dei grandi laghi, che sono però tutti abbondantemente sotto la media stagionale. E dopo un’estate terribile, l’autunno non ha certo segnato una inversione di tendenza. Anzi: secondo Coldiretti c’è il rischio che il mese appena trascorso venga classificato come il più secco degli ultimi 60 anni. «La nostra preoccupazione – commenta il direttore generale dell’Anbi Massimo Gargano – deve già andare all’anno prossimo perché, valutando l’andamento climatico degli anni recenti, difficilmente arriveremo alla prossima stagione estiva con disponibilità idriche nella media e pertanto sarà utile attivare, già all’inizio del nuovo anno, tavoli di concertazione per contemperare, come fatto quest’anno, i molti interessi gravanti sulla risorsa acqua».
Tutte le opere bloccate
Fino ad oggi le 35 incompiute italiane sono costate già 650 milioni di euro e per essere completate ne richiedono altri 775. Per lo più si tratta di opere localizzate nel Mezzogiorno, con la Campania guida questa davvero poco invidiabile classifica con ben 9 «incompiute» e la Calabria che insegue con 7, a ruota Lazio, Puglia, Sicilia con 4 «incompiute» ciascuna, l’Abruzzo con 2 ed infine Emilia Romagna, Molise e Sardegna con una a testa. Un’opera fantasma come la diga sul Melito fino ad ora è costata 90 milioni di euro ed ha già comportato tra l’altro l’esproprio di ben 112 ettari di terreno produttivo. Per terminarla ora si stima che possano servire all’incirca altri 190 milioni di euro. Opera inutile? I calabresi sostengono di no: dal momento che una volta completata consentirebbe di irrigare ben 16 mila ettari di campi e garantire acqua potabile a 55 comuni e circa mezzo milione di abitanti. Un contenzioso con l’impresa appaltante tiene fermi i cantieri da anni vanificando così anche diverse migliaia di posti di lavoro. Al rovescio basterebbero «appena» 60 milioni per terminare la diga siciliana di Pietrarossa (cantieri aperti nel 1989 e interrotti poi nel 1997 in seguito alla scoperta di un insediamento archeologico) già realizzata al 95% ed in grado di assicurare acqua a 11.000 ettari di coltivazioni nella piana di Catania e nelle province di Siracusa ed Enna. Poi c’è il caso della rete irrigua Alento in Campania, che è già costata 34 milioni di euro e si è arenata sul terzo lotto di lavori, e ancora interventi rimasti in sospeso in val Trebbia in provincia di Piacenza, nel comprensorio di Sulmona, nella conca di Sora e nell’Agro Pontino, nel comprensorio del Sannio e in Valle Ufita, nel Gargano e nell’Alto Vulture, lungo diversi corsi d’acqua calabresi (i fiumi Metramo e Crati ed i torrenti Rosa e Laurenzana) e nel Basso Campidano sardo. «Questa situazione non è da Paese normale – protesta Vincenzi – per cui non credo ci si debba fermare di fronte a 7-800 milioni di spesa».
Piani e miliardi
Oltre alle 35 grandi «incompiute» l’Anbi preme sul governo perché venga sbloccato il Piano nazionale degli invasi «per dare una risposta ancora più specifica alle ricorrenti siccità che penalizzano l’agricoltura italiana». Si tratta di 2.000 progetti per la realizzazione di bacini perlopiù medio-piccoli che richiedono un investimento ventennale di 20 miliardi di euro, con un primo stralcio che prevede la realizzazione di 84 progetti per un importo complessivo di circa 500mila euro. In parallelo è stato poi messo a punto anche un Piano per la riduzione del rischio idrogeologico che punta a migliorare significativamente la sicurezza del territorio italiano da allagamenti, alluvioni e frane. In questo caso servirebbero invece 3.709 interventi tra sistemazione di versanti, riduzione delle frane e opere di adeguamento degli impianti idrovori per un importo complessivo di quasi 8 miliardi di euro finanziabili con mutui quindicennali. La Regione con le maggiori necessità finanziarie per progetti definitivi ed esecutivi è il Veneto (1,74 miliardi di euro per 697 progetti), a seguire l’Emilia Romagna con 1,11 miliardi ed il record dei progetti da realizzare (942), quindi Piemonte (211 progetti, per un ammontare complessivo di 938 milioni di euro), Toscana (686 milioni ) e Lazio (598 milioni). Secondo Vincenzi «l’attuazione di questo nostro piano ridurrebbe progressivamente le conseguenze di sciagure di origine naturale, la cui violenza è accentuata dai cambiamenti climatici in atto e che annualmente costano circa 2 miliardi e mezzo per riparare i danni, senza contare l’incommensurabile valore delle vite umane. Non solo: sarebbe un importante fattore economico perché si creerebbero circa 50 mila nuovi posti di lavoro».
Primi fondi in arrivo
Governo avaro, istituzioni insensibili? Secondo il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, che nelle ultime settimane è intervenuto più volte su questi temi, «il problema, sia per il dissesto idrogeologico che per le depurazioni, non è quello delle risorse. Oggi il problema è la capacità di spesa delle risorse che abbiamo già a causa di un sistema molto farraginoso e dalla frammentazione delle competenze con tanti piccoli comuni che fanno fatica ad avere una struttura adeguata e ad investire». Intanto però con la nuova legge di Bilancio un piccolo passo avanti è stato fatto: il governo ha infatti deciso di stanziare 50 milioni di euro destinati al piano invasi e come ha spiegato il direttore di Italiasicura Erasmo D’Angelis, finalmente, «dopo 50 anni lo Stato ricomincia a progettare e a pianificare opere idriche strategiche per evitare crisi ed emergenze, per aumentare la dotazione di acqua nelle fasi di emergenza e ridurre i costi delle emergenze». «Cinquanta milioni non sono tanti – commenta il presidente dell’Anbi -. Però è un modo per partire, soprattutto perché questi fondi sono vincolati a progetti pronti e subito cantierabili. Il Paese ha urgente bisogno di un cambio di rotta in questo campo, perché non ci possiamo permettere il lusso di lanciare oggi un’opera e poi finirla fra vent’anni».