Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  novembre 05 Domenica calendario

Primi rialzi dei tassi ma i bond reggono l’urto

Lo chiamano «dovish hike». Cioè rialzo dei tassi «accomodante». Una contraddizione in termini, come dire dire «ghiaccio caldo». Sta di fatto che questo ossimoro, coniato per la stretta monetaria della Bank of England ma in realtà applicabile anche alla Federal Reserve e alla Bce, mostra con una chiarezza disarmante cosa pensino i mercati finanziari della nuova era “restrittiva” della politica monetaria globale: sono ancora convinti che non sia iniziata alcuna era restrittiva. Credono che sarà così graduale da poter essere quasi ignorata. È per questo che i mercati obbligazionari non si sono affatto spaventati in queste settimane in cui la Bce ha dimezzato il suo stimolo monetario, in cui la Bank of England ha rialzato i tassi per la prima volta da 10 anni e in cui la Fed ha confermato il rialzo dei tassi a dicembre.
Eppure qualche motivo per allarmarsi gli investitori ce l’avrebbero eccome: nel mondo – secondo i calcoli di Alberto Gallo di Algebris – esistono tutt’ora 11mila miliardi di dollari di obbligazioni con rendimenti sotto-zero e 2mila miliardi di patrimoni gestiti con strategie dipendenti dalla stabile volatilità e dalle correlzioni tra mercati. Il giorno in cui le banche centrali davvero inizieranno a restringere la politica monetaria, che è la causa sia dei rendimenti negativi sia della scomparsa della volatilità, questi due mondi resteranno spiazzati. Si tratta di 13mila miliardi di dollari di investimenti o strategie d’investimento che presto o tardi si troveranno in fuorigioco: i rendimenti dovranno risalire (con perdite per chi ha questi titoli) e la volatilità dovrà aumentare (con dolore per chi punta sulla calma piatta dei mercati). Perché allora il cambio di passo delle grandi banche centrali è stato salutato dai mercati con un’alzata di spalle? Quali rischi ci sono davvero sui bond?
Stretta non stretta
Dal 26 ottobre, quando la Bce ha annunciato il dimezzamento degli stimoli, i rendimenti dei Bund tedeschi sono scesi di 12 centesimi e quelli dei BTp di 25. Persino quelli dei titoli di Stato Usa sono calati, sebbene la Fed abbia confermato il rialzo dei tassi a dicembre, dal 2,42% al 2,34%. E dal giorno in cui la Bank of England ha alzato i tassi, i rendimenti dei titoli di Stato inglesi sono diminuiti dall’1,37% all’1,26%. È vero che erano saliti a settembre e che in molti casi sono oggi più alti rispetto a inizio anno, ma questi movimenti non sono coerenti con il nuovo scenario di tassi più elevati e di liquidità meno abbondante.
I motivi di questo fenomeno paradossale sono vari. Da un lato i mercati temevano che le banche centrali fossero più aggressive: la Bank of England ha rialzato i tassi ma ha fatto capire che si tratta di una mossa sporadica, mentre la Bce ha ridotto gli stimoli da 60 a 30 miliardi mensili senza indicare una data in cui li terminerà. Dunque per i mercati gli annunci sono stati più accomodanti del previsto. E dato che si muovono sulle aspettative, hanno adeguato i rendimenti dei bond al ribasso. Idem per la Fed: «Il mercato non crede che nel 2018 alzi i tassi come dichiara di voler fare – osserva Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo -. Il mercato sconta due rialzi da qui a fine 2018, mentre la Fed ne segnala 4».
C’è poi un altro motivo che tiene i rendimenti dei titoli di Stato bassi: la domanda strutturale di bond. Per esempio continuano a comprare titoli di Stato Usa ed europei le banche centrali dei Paesi emergenti, di Svizzera e Norvegia. Insieme, da dicembre 2016, questi Paesi hanno aumentato le riserve valutarie di circa 300 miliardi di dollari secondo i dati Fmi: questi soldi sono in gran parte finiti in acquisti di titoli di Stato occidentali. Oppure ci sono soggetti, come le assicurazioni, “obbligate” a comprare titoli di Stato a lunga scadenza per motivi regolamentari. Insomma: sui bond dei Governi c’è una domanda strutturale, che tiene i rendimenti ancorati sul basso.
Undici trilioni di rischi
Ma a tutto c’è un limite. I rischi di questa bolla obbligazionaria sono tanti. Innanzitutto quando la Bce chiuderà il suo quantitative easing, calcola Mezzomo di Intesa che i rendimenti dei titoli di Stato dell’Europa centrale possano salire di qualcosa come 50 centesimi. Rendimenti in rialzo significano prezzi in calo. Insomma: perdite per gli investitori. Soprattutto per chi detiene quegli 11mila miliardi di titoli con rendimenti ancora negativi.
Ma in realtà di motivi per vedere salire i rendimenti dei bond ce ne sarebbero molti altri. Per esempio l’inflazione. Il mercato si muove come se questo fantasma fosse ormai sparito per sempre, “ucciso” dalla demografia, dalla tecnologia e dai lavori a basso salario del mondo globalizzato. Ma tanti economisti non la pensano così. Per esempio Alberto Gallo di Algebris Investments: «L’inflazione potrebbe tornare timidamente – scrive -. Per almeno due motivi: i salari potrebbero accelerare e un’economia cinese più forte del previsto potrebbe esportare inflazione». Non crede che l’inflazione sia morta neppure Andrew Wilson, Ceo di Goldman Sachs AM per i Paesi Emea. Non è detto che il caro-vita torni davvero a salire – bene inteso – ma non è detto neppure il contrario.
Il problema è che il mercato non è attrezzato per questo evento. «Gli investitori per anni hanno acquistato azioni per avere cedole e obbligazioni per incassare capital gain – osserva Gallo di Algebris -. Hanno puntato su strategie basate sulla bassa volatilità e sulle correlazioni dei vari mercati». Ebbene: cosa potrebbe accadere se queste correlazioni dovessero saltare, se la volatilità tornasse a salire e se i rendimenti dei bond lievitassero? Cosa succederebbe se tanti investitori, tutti insieme, si trovassero a dover smontare i loro portafogli? Considerando che ormai i mercati obbligazionari sono illiquidi (è facile comprare ma più difficile vendere), che le strategie passive (come gli Etf) sono sempre più diffuse e che le interconnessioni sono fortissime, cosa potrebbe accadere? La speranza è di non scoprirlo mai.
m.longo@ilsole24ore.com