La Lettura, 5 novembre 2017
1400, il secolo dell’amore
E pensare che il Quattrocento è stato definito il secolo senza poesia. Come se, dopo le gloriose stagioni di Dante e Petrarca, non fosse più possibile scrivere versi degni di avere ascolto. Invece, il Quattrocento poetico è un secolo piuttosto lungo, che parte in sordina all’indomani della morte del cantore di Laura, nel 1374 ad Arquà, in Veneto, epicentro di un crescente fervore petrarchesco. Proprio sotto l’egida del Canzoniere, ovvero dei Rerum vulgarium fragmenta (il suo titolo originale, in latino), prende corpo una tradizione di poesia amorosa in volgare destinata a toccare l’apice nel Cinquecento, quando sarà Bembo a definirne il canone.
È pur vero che la fortuna di Petrarca presso i contemporanei resta legata soprattutto alle opere latine, che anticipavano motivi dell’Umanesimo, ma intanto, sotto sotto, tutti a petrarcheggiare amorosamente, da Nord a Sud (fino a Napoli e non oltre). Lo dimostrano tanti studi degli ultimi cinquant’anni volti a recuperare quel secolo di poesia e firmati da filologi illustri dediti a edizioni critiche e ad analisi stilistiche, come Dionisotti, De Robertis, Tissoni Benvenuti, Bozzetti, Balduino, Mengaldo, Santagata, fino a Testa e Scaffai. Ora, come consuntivo provvisorio e al tempo stesso come rilancio di quel paziente lavoro, ecco un Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di Andrea Comboni e Tiziano Zanato, mandato in libreria dalle Edizioni del Galluzzo. Il repertorio è vastissimo di nomi e di combinazioni testuali, contenuti, formule metriche, provenienze. L’ Atlante si compone di 96 schede affidate a un’équipe di 63 specialisti che restituiscono una sorta di radiografia dei singoli libri (diversi inediti) descrivendo la tradizione che li tramanda, dando conto dei vari livelli indispensabili perché si possa parlare di «canzoniere» e verificando il grado di approssimazione a Petrarca per opere eclettiche che attingono anche a filoni diversi e che risentono soprattutto della lettura, in voga, degli elegiaci latini.
Dunque, che cos’è un canzoniere poetico? In sostanza, si tratta di una raccolta di rime non casuale ma organizzata secondo una logica voluta dall’autore che vi narra una vicenda amorosa mescolando verità e finzione. In termini tecnici, si direbbe un «macrotesto», cioè un insieme organico che prevede: un componimento proemiale e un componimento conclusivo capace di saldare il racconto dell’esperienza amorosa, alcune partizioni interne, titoli e rubriche, connessioni a distanza, una progressione di senso e di racconto in un tempo storico spesso riconoscibile (a partire dalle date fatali dell’innamoramento), dichiarazioni di poetica più o meno esplicite.
Spesso semplificatoria quando non banalizzante, la generale eterodossia rispetto all’archetipo petrarchesco, primo esempio di canzoniere nella storia delle lirica europea, si rivela su vari piani, dalle forme (la netta prevalenza del sonetto) alle strutture, ai contenuti. Fenomeno evidente è il superamento dall’unicità della donna tipica dell’autobiografia ideale di Petrarca. E se dalla monogamia si passa non di rado a un atteggiamento più elastico e poligamico, la morte dell’amata può portare il poeta a rivolgere l’attenzione ad altre figure femminili sostitutive. Il riminese Girolamo Ramusio arriva a mettere a confronto la defunta Catta con la nobile Angela dalle trecce bionde. Ciò che sarebbe impensabile per Petrarca, la cui ossessione rimane Laura anche post (di lei) mortem : anzi, la sua scomparsa, nel segnare un prima e un poi all’interno del Libro come nella vita, enfatizza la sua singolarità (e quella del Canzoniere ), attraverso il ricorso alla memoria.
La prima autorevole mediazione porta la firma ben nota di Giusto de’ Conti da Valmontone, cui si deve quello che si suole chiamare il canzoniere della Bella man o. Dove si racconta una vicenda amorosa durata sette anni, dal 1433 al 1440, che coinvolge una donna il cui nome è celato nell’acrostico ISABETA MIA GENTILE, fanciulla bolognese la quale seduce il poeta con le sue lusinghe e le sue bellezze (particolarmente la mano) senza però restargli fedele. E così a Giusto non resta che lamentare l’«oltraggio» del tradimento: «Altri possede et io piango il mio bene», e imprecare, in vesti di pastore, contro «questa altera/ crudele, ingrata, falsa donna». Scrive Italo Pantano, estensore della scheda: «La nuova condizione matrimoniale dell’amata, che in tutta la lirica delle origini era stata non certo ostacolo, ma premessa dell’amor cortese e della poesia che ne nasceva, e che Petrarca per primo aveva riconosciuto come problema etico, per Giusto de’ Conti sembra dunque rappresentare una barriera insuperabile alla propria dedizione, termine invalicabile di ogni discorso amoroso».
La donna diventa «perfida», con un aggettivo non petrarchesco che si diffonde rapidamente dal Veneto alla Campania. Il tradimento avrà un discreto successo poetico nel secolo e potrà consumarsi persino sotto gli occhi del poeta innamorato, come avviene nel canzoniere del padovano Domizio Brocardo: dove Lia, sostituta della defunta Galatea, dopo una fase di ambasce per il poeta finisce per subire violenza dallo stesso Domizio, gettandosi per vendetta tra le braccia di un altro.
Del resto, lo stesso Matteo Maria Boiardo, l’autore dell’ Orlando innamorato, è un petrarchista sui generis con gli Amorum libri tres. Nobile ferrarese, Boiardo non ancora trentenne scrive un canzoniere che sin dal principio evoca diversi ingredienti dell’incipit programmatico di Petrarca (il celebre «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono»): l’Eros come inganno ed errore doloroso tipico dell’età giovanile, nonché ricordo di un uomo mutato e però ancora in preda al pentimento per le «fole» trascorse e per il cedimento ai vizi della carne. Ma diversamente da Laura la ragazzina Antonia Caprara (il cui nome è celato dentro gli artifici delle allitterazioni, degli anagrammi, degli acrostici o della cosiddetta acrostrofe, il collegamento di lettere tra strofe) non muore, risparmiando al poeta il lutto che colpì Petrarca. L’ambientazione è l’unica degna del conte Boiardo, cortigiano del duca Borso d’Este: il primo incontro con l’amata è avvenuto in una festa primaverile di corte a Reggio Emilia, tra canti, danze e giochi. Il «diario» non è privo di doppi sensi (provenienti da Boccaccio) o di allusioni alla «smisurata» voglia del giovane poeta («ché amor né caldo né fatica teme»), e al di là della retorica sul pentimento, in definitiva, come osserva Zanato, la gioiosa vitalità giovanile non può e non deve, per Boiardo, rifuggire dalla ricerca dell’appagamento erotico, che è vita all’ennesimo grado.
Boiardo ma anche gli ignoti o quasi. Come Iacomo Ariani, un nobile veneziano «conduttore» del dazio del vino e dell’olio, che è il probabile autore di un sorprendente canzoniere (ineditissimo) composto di 200 sonetti e consegnato a una sola testimonianza: un codice del 1497 conservato nella biblioteca dell’Università di Yale. Non mancano i motivi canonici: la beltà («che ogni altra anera») dai capelli biondi, la lode per la «celeste dea» prima accogliente e poi sempre più insensibile e ostile, la dolorosa lontananza del poeta privato della libertà, tra sofferenze e incomprensioni. Ma, come fa notare Comboni, stupisce l’immagine dell’amata in veste di barcaiola, impegnata a remare contro il vento che le sparge i capelli e le scopre il petto: «E per fatica il bel color cresceva,/ fiamma da luminar un carcer tetro».
A proposito di carcere. Il petrarchismo del Quattrocento contempla anche canzonieri solo marginalmente amorosi, come quello del nobile napoletano Giovanni Antonio de Petruciis, conte di Policastro e figlio del segretario di Ferdinando I d’Aragona. Imprigionato a Napoli nella Torre di San Vincenzo per aver partecipato alla cosiddetta Congiura dei Baroni, il giovane de Petruciis è autore di un diario poetico dei quattro mesi di detenzione fino alla condanna a morte celebrata nel dicembre 1486: nonostante la presenza di ben tre donne (moglie compresa), tra speranza e conforto filosofico sono anche registrati in diretta diversi eventi dell’epoca con sonetti rivolti a destinatari storici. «Dal fundo de lo inferno ve saluto»…
I curatori ricordano che il secolo ha prodotto un culto laico di Petrarca che spinse parecchi poeti a rendere omaggio alla sua tomba di Arquà. Tra i pellegrini c’è anche Marco Businello (nato a Padova nel 1432), che nel suo canzoniere patisce per una passione non ricambiata: si tratta di amore omosessuale per un giovane «idolo» senza nome, definito tra l’altro «om del Paradiso» o «alma cortese, cum suave riso», che tutt’al più è mosso a pietà per il poeta afflitto. Qualche anno dopo, nel solco omoerotico, comparirà anche il pistoiese Tommaso Baldinotti (1451-1511), il cui canzoniere è tramandato, come informa la cospicua scheda di Lucia Bertolini, da un codice Palatino autografo. I nomi femminili (Panfila, Petra, Cinzia) che vi compaiono non devono trarre in inganno, essendo utilizzati in funzione di schermo dietro cui si celano amori maschili, peraltro confermati nei diversi acrostici di cui è costellato il libro.
Il precoce culto laico di Petrarca cui si accennava convive con una sorta di laicismo petrarchista che sopporta ampie scorribande in ogni direzione: oltre all’amata si può celebrare l’amato; oltre a intonare lodi, il poeta può innalzare invettive e accuse violente contro la donna ritrosa (come capita a Antonio Grifo); oltre alla dipartita di madonna, si può piangere la cagnetta defunta; la fanciulla angelicata, di cui si ammirano le mani, il collo, il seno, può però portare una cicatrice sul volto, apparire nella fase della gravidanza e dell’allattamento e persino del parto, come nelle rime del medico senese Bernardo Ilicino. O addirittura l’amata può «rubare» il mestiere all’amante maschio e farsi a sua volta autrice di sonetti, come la Safira cantata dal senese Filenio Gallo. Del resto, in Appendice dell’ Atlante compare la toscana Girolama Corsi che, pur senza comporre un vero e proprio canzoniere, nella seconda metà del secolo cantò in rima non solo il marito, ma diversi amanti, amici ed ex amori abbandonati e ritrovati.