La Lettura, 5 novembre 2017
Galileo prima di Galileo
Mentre il nonno lo trascinava su e giù per Firenze a visitar chiese, mostre e palazzi, «e ogni santa domenica ce n’era uno da vedere», nemmeno lontanamente avrebbe immaginato che cinquant’anni più tardi si sarebbe ritrovato legato a doppio filo all’unico museo rimasto – più per caso che per scelta – estraneo alle esplorazioni, ovvero quello di Storia della scienza, poi dedicato a Galileo Galilei. «È che ci sono cose che non trovi tu, sono loro a trovare te...».
Alberto Bruschi non è fatalista. È realista. Fiorentino dagli illustri natali, numismatico, gran collaboratore delle Soprintendenze, è il collezionista che comprando all’asta un reliquiario anonimo nel 2009 ha poi scoperto d’essersi aggiudicato l’urna con i resti (due dita e un dente) proprio di Galileo. Adesso la storia si ripete: è di nuovo lui ad aver recuperato un dipinto che porta alla ribalta il mistero del ritratto giovanile «perduto» del grande scienziato, opera citata da fonti storiche ma mai individuata. Almeno fino a ora. Perché anche Federico Tognoni, un’autorità in fatto di iconografia galileiana, ritiene «davvero molto plausibile» che la tela scovata da Bruschi all’estero sia effettivamente quella di cui parla il senatore Giovanni Battista Clemente Nelli quando nel 1793, in Vita e commercio letterario di Galileo Galilei, annota: «Santi di Tito (tra i protagonisti della riforma pittorica fiorentina, ndr ) effigiò Galilei nel 1601, in un piccolo quadro, in età di anni 38». Un ritratto eccezionale perché, oltre a confermare precoci legami con gli artisti toscani, fissa il genio prima che le scoperte del 1609-1610 lo consacrassero: un’immagine lontana da quella austera giunta fino a noi grazie soprattutto al ritratto realizzato nel 1635 da Justus Sustermans e conservato nella Galleria degli Uffizi.
Galileo prima di Galileo, dunque. Un dipinto enigmatico ma talmente interessante da costituire l’ incipit della retrospettiva Rivoluzione Galileo. L’arte incontra la scienza, che inaugura il 18 novembre a Padova. La tela della collezione Bruschi sarà per la prima volta presentata in pubblico: arriva in mostra come «attribuita» a Santi di Tito. Ma Giovanni Carlo Federico Villa, curatore con Stefan Weppelmann, precisa: «Questo sarebbe il dipinto perduto, gli indizi vanno in una direzione. L’auspicio è che comunità scientifica e visitatori possano contribuire, con ampio dibattito, a chiarire il rebus». Non è un caso che la tela con il «nuovo» volto di Galileo abbia tanto rilievo. L’obiettivo di Villa e Weppelmann è raccontare un uomo a tutto tondo: scienziato (in esposizione le prime edizioni dei più famosi trattati), musicista (era virtuoso del liuto), disegnatore (presenti acquerelli autografi), critico d’arte (lettere in cui, ad esempio, demolisce l’Arcimboldo), imprenditore delle sue stesse creazioni (vende cannocchiali e compassi a mezza Europa), appassionato di vini (baratta strumenti con botti «del migliore»), tormentato da malanni tanto da dedicarsi alla galenica (annota furiosamente la formula delle pillole d’aloe di Girolamo Fabrici d’Acquapendente). Poi c’è l’arte, con opere scelte perché ne contestualizzano il lavoro o risentono dei suoi influssi: dai disegni di Leonardo da Vinci alle mappe celesti di Albrecht Dürer, dalla Via Lattea di Tintoretto a quella di Rubens.
Certo, molti punti sull’effigie riscoperta vanno chiariti. Il senatore Nelli scrive: «L’opera del 1601 si conserva nella mia biblioteca (ultima collocazione nota, ndr )». E spiega d’aver scelto, per illustrare la biografia che sta ultimando, un’incisione che Giuseppe Calendi ha realizzato proprio ispirandosi alla tela di Santi di Tito. La somiglianza con la stampa settecentesca risulta adesso cruciale per valutare il ritratto appena ritrovato che, afferma Tognoni, «è fra i più antichi di cui le fonti serbano memoria». «A Padova – aggiunge – vedremo per la prima volta un Galileo intimo, libero da simbolismi. Viceversa Sustermans, che ancora oggi plasma la memoria di tutti noi, scelse atmosfere quasi divinizzanti e tratti somatici del sapiente eroico: fronte corrugata, canizie veneranda, capelli scarmigliati, sguardo rivolto verso l’orizzonte celeste, labbra pronte a proferire verità». Nella tela di Padova, invece, «il genio veste sobriamente. Lo sguardo, puntato sull’osservatore, è furbo. La raggiunta consapevolezza traspare anche dal volto, segnato dall’immancabile verruca sullo zigomo sinistro. Colpiscono il grigio-azzurro degli occhi, i capelli corti, rossicci, senza segni di incanutimento, la barba curata. Insomma: ecco un uomo stimato, tanto che è un maestro a ritrarlo, ma non celebrato». La tela selezionata da Villa è proprio quella citata dal Nelli? «Con l’incisione del Calendi c’è una sorprendente somiglianza». Eppure nella stampa il saggio impugna un cannocchiale, cosa che non avviene nel quadro: «Nel 1601 lo strumento non era perfezionato. Probabilmente è un’aggiunta di Calendi, al lavoro anni dopo». Va ricostruita però la paternità dell’opera giunta a noi: se è «verosimile che l’autore sia Santi di Tito, come dice la biografia», c’è un però. Nel restauro è emersa un’iscrizione in latino che ricorda le scoperte astronomiche del Sidereus Nuncius, pubblicate nove anni dopo la data citata dal senatore e soprattutto quando Santi di Tito era defunto. «Possiamo supporre – conclude Tognoni – che il ritratto di Galileo sia stato iniziato da Santi di Tito e ultimato poco dopo, anche con l’epigrafe, dal figlio e allievo Tiberio Titi».
A proposito della scritta: qui torna in campo Alberto Bruschi. Nel 2013 ha individuato il dipinto all’estero (è un’importazione temporanea) e ora spiega: «Non pensavo certo fosse la famosa opera, ma a me piaceva. Una volta a casa ho chiesto a mia figlia Camilla, restauratrice, di pulirla. Vedendo spuntare le lettere, abbiamo chiamato il direttore del museo fiorentino di Storia della scienza Paolo Galluzzi e il professor Tognoni». Sono partire le analisi nel massimo riserbo. Un déjà-vu. Così avvenne qualche anno prima con la rocambolesca vicenda dell’urna: «Un’altra delle mie figlie, Candida, è molto religiosa e colleziona reliquiari. Sapeva che la Casa d’aste Pandolfini stava per venderne uno del ’700. Disse: papà, compralo». Base: 800 euro. Aggiudicato. Che ci fosse qualcosa all’interno si capiva, «parlavano di code d’armadillo…», ma è quando Candida nota una decorazione con il busto di Galileo che le cose prendono una piega inaspettata: «Stava preparando una tesi che riguardava anche il sepolcro dello scienziato nella basilica di Santa Croce. Ricordò il verbale di un notaio sulla riesumazione del corpo, avvenuta nel 1737, quando Gian Gastone de’ Medici volle dargli sepoltura degna». Un verbale macabro in cui si dice che i nobili presenti asportarono – usanza dei fan dell’epoca – tre dita della mano destra, una vertebra (la quinta) e un premolare. Alcuni resti sono da allora conservati a Firenze (un dito) e Padova (la vertebra), mentre degli altri si conosceva il destino fino al 1905. Poi, nulla. Dopo l’asta, esami medici e storici hanno portato all’annuncio ufficiale dell’allora soprintendente Cristina Acidini: le spoglie sono di Galileo. Quell’ultima reliquia oggi è esposta al museo che ne porta il nome. E che, singolare legge del contrappasso, per Bruschi è ormai una seconda e amatissima casa.