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 2017  novembre 05 Domenica calendario

«Io, condannato ad avere successo». Una lunga intervista a Umberto Orsini

Tutti i calcoli mentali fatti prima di incontrarlo si rivelano sbagliati. Primo errore: pensare che dopo due ore di spettacolo serrato, a 83 anni, lui sarà stanco. Umberto Orsini ci riceve serenamente nel suo camerino del Teatro Argentina, subito dopo una replica di Copenaghen, il thriller scientifico-politico scritto da Michael Frayn, e diretto da Mauro Avogadro, che, a 18 anni dal primo allestimento, sta ipnotizzando il pubblico romano (fino al 12 novembre all’Argentina e poi in tournée) con un rebus storico: che cosa si dissero veramente in quel lontano settembre del 1941, nella capitale della Danimarca occupata dai nazisti, i due genitori mancati della bomba di Hiroshima, ovvero il fisico tedesco Werner Heisenberg inventore del principio di indeterminazione (Massimo Popolizio), e il suo vecchio maestro, l’ebreo danese Niels Bohr, padre dell’atomo quantistico (interpretato da Orsini), alla presenza della moglie di Bohr, Margrethe (Giuliana Lojodice)?
In pochi minuti, Orsini si è già cambiato d’abito: «Le dispiace se fumo?», dice con quella sua voce immutata nel tempo, che sembra creata artificialmente per gettare acqua fredda sui tumulti involontari del cuore. A quel punto si siede di spalle al grande specchio del camerino; lo fa in un modo leggero, come se il suo corpo allenato dal tennis non avesse peso. Il secondo errore è immaginare che, dopo quella disumana fatica scenica, un attore del suo calibro e di quell’età possa non avere voglia di parlare di sé. Orsini si accende una sigaretta. Il sorriso gentile fa a pugni con lo sguardo, quasi severo: «Da dove cominciamo?», chiede.
Da Copenaghen e dalla questione della scelta. Nella sua vita, lei ha mai dovuto affrontare un dilemma morale difficile da risolvere?
«Non credo di essermi mai trovato di fronte a un problema etico di vitale importanza. Da uomo pragmatico, cerco sempre di risolvere le questioni nel momento in cui si presentano. I dubbi sono stati semmai più legati alla mia vita privata. Alla fine ho deciso, per esempio, di non sposarmi e di non avere figli».
Perché?
«Pensavo che matrimonio e figli potessero essere d’ostacolo alla mia libertà. Quando sei giovane, fai di questi pensieri».
Se n’è pentito?
«Qualche volta ci ho pensato con nostalgia, ma il rammarico non mi appartiene. Non prendo mai decisioni viscerali».
Lei festeggia sessant’anni di palcoscenico. Era il 1957 quando soffiò quel ruolo a Ronconi.
«Sostituii Luca nel ruolo di Peter ne Il diario di Anna Frank di Goodrich e Hackett, che la Compagnia dei Giovani mise in scena con la regia di Giorgio De Lullo. Fu il mio debutto in palcoscenico: 11 novembre 1957».
In quello stesso periodo conobbe Luchino Visconti
«Venne a vedere un saggio dell’Accademia. Avevo saputo che stava facendo dei provini per Uno sguardo dal ponte e cercava un protagonista biondo. Così mi feci biondo platino. I miei compagni non capirono perché volessi recitare conciato in quel modo Nostra dea di Bontempelli».
Come finì?
«Finì che Visconti scelse Corrado Pani. Eravamo i due attori giovani dell’epoca, io cominciai a lavorare con la Compagnia dei Giovani, lui con la Compagnia di Stoppa-Morelli».
Quando Pani si fidanzò con Mina, lei come la prese?
«Male. Mina era un sogno. Era il sogno di tutti gli italiani. È stata una delle personalità più forti che abbia mai incontrato».
Le manca molto l’amico Corrado Pani?
«L’ho accompagnato fino all’ultimo momento della sua vita (ndr, Pani è morto nel 2005). Mi mancano soprattutto le telefonate che ci facevamo al mattino. Dopo c’è stato un silenzio terribile da sopportare».
Chi era il suo Visconti?
«Un grande maestro e un amico. Con lui ho recitato prima a teatro nell’Arialda di Testori (1960) e poi al cinema ne La caduta degli dei e in Ludwig. Io sono un attore molto controllato, tutto di testa. Invece con Luchino riuscivo ad abbandonarmi. E non mi è mai più successo».
Dei 62 film che ha interpretato, quali salverebbe?
«Ho un buon ricordo dei film fatti con Romy Schneider. Il cinema francese mi adottò sicuramente più di quello italiano».
E La dolce vita di Fellini?
«Meraviglioso, ma facevo una piccola parte».
Negli anni Settanta fu protagonista del ciclo soft erotico di Emmanuelle...
«Emmanuelle mi portò a Bali, a Singapore, a Hong Kong, e soprattutto conobbi Sylvia Kristel che era una donna bellissima con cui poi ebbi una breve storia».
Lo sappiamo, è stanco di sentire il nome di Ellen Kessler accanto al suo.
«A chi interessa più? È successo tanto tempo fa».
I suoi rapporti più lunghi sono stati con Ellen Kessler e poi con Valentina Sperlì
«Anche».
Come anche? Se le chiedessi: al di là delle cronache rosa e del tempo passato insieme, quali sono stati i grandi amori della sua vita?
«Non lo so perché sono stati molto diversi. Non posso fare una classifica. Sono amori che sono stati forti nel momento in cui li vivevo, col tempo sono diventati molto meno forti. Non so neanche se mi sono mai veramente innamorato nella mia vita».
Non lo sa?
«No. Però, a parte un paio di casi di storie finite burrascosamente, sono diventato amico delle donne a cui ero legato sentimentalmente. Una volta mi sono trovato a tavola con cinque donne tutte amiche tra di loro, e mi sono reso conto che in varie epoche della vita tutte e cinque avevano avuto un rapporto con me. In quel momento quasi non mi ricordavo più. Non perché fossi rimbambito, ma perché era tutto al passato».
E ora che siamo al presente, ha una storia d’amore?
«Ho una compagna da 7 anni».
È un’attrice?
«Diciamo che sta cercando di fare seriamente l’attrice, ma questo mestiere è diventato molto duro per le nuove generazioni Lei è molto più giovane di me»
Quanto più giovane?
«Di 43 anni».
Il suo più grande successo?
«Io faccio sempre spettacoli di successo. Diciamo che sono condannato al successo. Dovevo avere successo quando, con Rossella Falk, ho diretto il Teatro Eliseo dall’80 al 97, e devo avere successo adesso che sono capocomico di una Compagnia che porta il mio nome».
La più grande umiliazione subita?
«Quando dimenticai alcune battute che dovevo dire ne Il diario di Anna Frank. In realtà mi presero perché ero carino. Non avevo un grande talento».
Cosa?
«Sono diventato bravo molto più tardi. Da allora, arrivo al primo giorno di prove con la memoria perfetta. Sono un maniaco nel mio lavoro. Mi osservo sempre da fuori».
Come affronta questa età della vita?
«Quando ripresi Il nipote di Wittgenstein di Thomas Bernard a distanza di più di dieci anni dalla prima, mi dissero: «È commovente». Nel 2001 ero bravo ma non commovente. E non era cambiato nulla tecnicamente. Ero cambiato io. Anche il personaggio di Bohr, in Copenaghen, oggi lo rendo più umano. La maturità mi ha portato più cuore. Per esempio adesso adoro i bambini, prima mi erano indifferenti».
Quando pensa alla morte, come la immagina?
«Non la immagino. È un appuntamento fatale e spero che arrivi nel modo migliore. Per me riflettere sul tempo significa pensare alla progettualità del tempo, senza pensare agli anni che ho, e lo so che 83 non sono pochi. Ma posso dire di avere avuto tutto dalla vita».
Neanche un desiderio incompiuto?
«Direi di no».
Almeno un personaggio che non ha ancora fatto
«Tutti mi dicono che dovrei fare Re Lear di Shakespeare, ma io non sono un attore eroico. Sono un attore borghese. L’unico testo che vorrei recitare e mettere in scena ha un titolo bruttissimo».
Quale?
«Quando noi morti ci destiamo. È l’ultimo testo scritto da Ibsen: un monumento alla vecchiaia».