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 2017  novembre 04 Sabato calendario

Le notti tragiche di Donald in trincea davanti alla tv


Solo davanti al gigantesco televisore di 60 pollici appeso al muro del salotto privato, il telecomando in una mano, lo smartphone a tiro dell’altra, Donald J. Trump entra alle 11 de la tarde nelle sue tormentate notti di guerra contro un mondo che rifiuta di amarlo. E che tenta di sabotarlo, spuntandogli la sua arma privata di distruzione di massa, Twitter, che un dipendente “canaglia” all’ultimo giorno di lavoro gli ha bloccato, impedendogli per undici, angosciosi minuti, di cinguettare i suoi minimi proclami.Le lunghe notti del presidente Trump dentro una Casa Bianca dove i muri hanno orecchie, il mobilio ha occhi e anche gli uscieri hanno assunto avvocati per proteggersi dalle indagini dell’inquisitore speciale Bob Mueller che incombe con il “Russiagate”, cominciano sempre con lo stesso rituale, quando il boss è in sede, perché Donnie, dietro quella sua aria di improvvisatore impulsivo, è un vecchio abitudinario, come sono i vecchi. Alle 7 di sera, stacca da quell’Ufficio Ovale diventato noioso, da quando il generale Kelly regola come un capostazione il viavai dei visitatori, dei famigli e dei cortigiani dei quali amava circondarsi per essere adulato.Sale sull’ascensore privato con otto pulsanti – cantina, seminterrato, terra, primo piano, primo mezzanino, secondo, secondo mezzanino, terzo piano per raggiungere la sala da pranzo privata, insieme con il vice Mike Pence, che usa un ascensore identico ma diverso, non si sa mai un guasto. Cena con puntigliosa monotonia, sempre bistecca, massimo hamburger, con insalata annegata nel “condimento delle mille isole” (una schifezza) e torta al cioccolato con due palline di gelato di crema, una in più dei commensali tanto per segnalare chi è il capobranco accompagnati dalla Diet Coke, mai vino o alcol che non tocca. E poi tutti fuori, vice, portaborse, miliardari amici, figlia Ivanka, genero Jared con i quali pare sia un po’ in fredda per averlo inguaiato con il pasticcio russo, moglie Melania spedita nella sua suite muliebre all’altro estremo del corridoio al secondo piano (ma presidenti e First Ladies non dormono mai per tradizione nella stessa stanza)per restare finalmente solo davanti al nemico: la televisione delle “fake news” che comincia a deriderlo negli show satirici della tarda sera e ricomincia a tormentarlo nei talk politici dell’alba.Compressa fra la rabbia per gli sfottò della sera e i malevoli, per lui, notiziari dell’alba confortati soltanto dai sicofanti adulatori della Fox Newsultratrumpista che lo insaponano, la notte di Donald è breve, agitata, insonnne. Dorme, per sua ammissione, quattro ore al massimo, passando dal salottino con il mega schermo alla camera da letto adiacente. Non esce e non scende mai, come faceva Richard Nixon nelle ore spaventose del Watergate quando vagava come uno spettro in vestaglia di seta svolazzante sorseggiando Bourbon e fermandosi a strimpellare a orecchio sul pianoforte grancoda nella sala da ballo o come Barack Obama che usciva sulla balconata detta Truman per scroccare una sigaretta al compiacente uomo del servizio segreto, lontano da Michelle addormentata.Smanetta furiosamente sul suo gadget preferito – «la più grande invenzione della storia» – TiVo, l’apparecchio che consente di registrare qualsiasi show tv a qualsiasi ora, a pezzi, saltabeccando fra un opinionista e una notizia, una gag comica e un sondaggio, montandosi fino a esplodere in mille schegge ditweet, 36 mila grida di rabbia e di rancore per i suoi quasi 42 milioni di follower. Può cascare di sonno e gli escono parole incomprensibili, come il “covfefe” che doveva essere un insulto agli odiati media prima della botta di sonno, mentre all’alba, quando si scuote, accende lo schermo, fa scorrere le registrazioni con il TiVo, la bile è lucida, velenosa. Ieri alle 6 del mattino ha sparato contro “Pocahontas”, come chiama insolente la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren che vanta incerte origini Cherokee, e contro l’immancabile “Crooked Hillary”, Clinton la farabutta, per la quale Trump vuole indagini, inchieste, incriminazioni, manette, come se volesse esorcizzare lo spettro di quella donna che ha avuto quasi 3 milioni di voti più di lui. Ed eccita la sua profonda insicurezza di sé e della propria legittimità di presidente di minoranza.Nel mattino del 30 ottobre, quando le prime tegole dell’inchiesta Russiagate cominciarono a piovere con l’arresto di tre dei suoi ex collaboratori nella campagna elettorale, la notte della paranoia divenne mattino e il mattino pieno giorno, prima che il presidente uscisse dalla sua solitudine e scendesse a valle con l’ascensore privato. Chiuso nel salotto, rincorrendo avanti e indietro le immagini registrate, sparava tweet contro tutti, proclamava la sua innocenza in maiuscole “NO COLLU-SIONI”, negava di avere mai conosciuto uno degli arrestati reo confesso, invocava mobilitazione contro Hillary come se fosse lei, e non lui, il capo dello Stato. I tirapiedi al pianoterra sapevano che era vivo soltanto dai tweet, aspettando che le luci sull’ascensore indicassero che stava scendendo. Barron, il figlio di undici anni, era partito per raggiungere la scuola lontana, in Virginia senza poter salutare il padre. Accompagnato dalla convitata di pietra della Casa Bianca, la ieratica, lontanissima Melania.Ora l’inquieto sire di questa presidenza shakespeariana, sul quale molto pesa la corona della solitudine, è in volo verso l’Asia, strappato al conforto del proprio nido, offeso in extremis dalla «canagliata» – sono parole sue – di chi lo ha mutilato per undici minuti di silenzio, per lui l’equivalente di un attentato. Nelle notti d’Oriente, confuse dalla differenza oraria, dove la notte asiatica è giorno americano e viceversa, un tweet sbagliato potrebbe scatenare un”covfefe” atomico. Servirebbe un’altra provvidenziale “canaglia” per calmare le notti della solitudine in Asia.