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 2017  novembre 04 Sabato calendario

Bond «emergenti» in scadenza per 1.700 miliardi entro il 2018

Il rallentamento dell’economia cinese, il collasso delle quotazioni del petrolio e la prospettiva di una politica monetaria più restrittiva da parte della Fed hanno provocato, tra il 2015 e il 2016, una colossale fuga di capitali dai Paesi emergenti. In particolare quelli più dipendenti dall’esportazione di materie prime come il Brasile o la Russia. Il timore degli investitori era che, con minori introiti derivanti dalla vendita di petrolio, una valuta più debole e tassi di interesse più alti per via della Fed, aziende e governi non riuscissero a far fronte all’enorme debito (soprattutto quello in valuta forte) accumulato nel corso degli anni. Una circostanza che non si è verificata. I Paesi emergenti hanno dimostrato di saper reggere il colpo e, una volta risaliti i prezzi del greggio, anche la fiducia degli investitori è tornata.
La tanto temuta ondata di insolvenze insomma non si è verificata eppure la crisi del Venezuela e l’annuncio della ristrutturazione del debito dimostrano chiaramente che i timori di molti investitori sul debito emergente non erano del tutto privi di fondamento. Certo la situazione di Caracas è del tutto anomala considerando il contesto politico e il peso delle sanzioni americane ma, sebbene si tratti di un caso estremo, è comunque sintomatico dei rischi legati all’investimento nei Paesi emergenti. Soprattutto alla luce dell’enorme debito accumulato in questi anni da governi e imprese. Un fardello che vale circa 59mila miliardi di dollari secondo una recente stima dell’Institute of international finance. Di questi circa 1700 andranno rifinanziati entro la fine del 2018. Il 26% dei questo debito è denominato in dollari mentre il 4% in euro. Un elemento di vulnerabilità se inquadrato in un contesto di politica monetaria globale che sarà molto più restrittivo che in passato considerata la prospettiva di una stretta monetaria da parte delle principali banche centrali. Sebbene la situazione sia meno critica che in passato ci sono dei Paesi che rischiano più di altri vista la maggior presenza di aziende in condizioni finanziarie critiche: in Brasile, India e Turchia – stima l’IIF – l’incidenza delle aziende “distressed” supera il 20 per cento. In Cina questa quota è al 15 per cento. Tra le maggiori economie mondiali la Repubblica popolare si conferma quella con gli squilibri maggiori. Il rapporto tra debito societario e Pil in Cina, seppur in calo, è al 165%. Il livello più alto tra le maggiori economie globali. Se si sommano debito pubblico e privato in rapporto al Pil in Cina la leva finanziaria è raddoppiata in 10 anni passando dal 150 al 300% del Pil. Il rapporto tra debito delle famiglie e reddito disponibile è al 104 per cento.
Quello del debito è in ogni caso un problema globale che interessa sia le economie emergenti sia quelle sviluppate. Sommando le passività di governi, famiglie e imprese in tutto il mondo l’IIF ha calcolato che il debito mondiale alla fine del primo semestre valeva 226mila miliardi di dollari. Un record raggiunto in un anno straordinariamente positivo per l’economia globale che, per la prima volta dopo tanti anni, ha registrato una crescita simultanea in tutte le principali aree geografiche. Se è vero che il fardello del debito per l’economia mondiale non è mai stato tanto pesante è anche vero che la leva finanziaria, grazie alla crescita, si è ridotta attesandosi al 324% del Pil globale.
Se l’aumento del Pil è certamente un segnale positivo per la sostenibilità del debito mondiale ci sono diversi campanelli d’allarme che sarebbe meglio non sottovalutare. Non solo nei Paesi emergenti. Tra i rischi segnalati dall’IIF c’è ad esempio quello del rifinanziamento del debito societario negli Stati Uniti. Nel 2018 andranno a scadenza ben 595 miliardi di bond societari. Una buona fetta dei quali emessi da società a basso merito creditizio: i cosiddetti bond spazzatura. Nel 2018 andranno rifinanziati 145 miliardi di dollari di junk bond americani. Nel 2020 il fardello salirà fino a 200 miliardi. Escluse le 25 maggiori società per capitalizzazione – calcola Standard & Poor’s – oggi le aziende americane hanno una disponibilità di cassa pari al 17% del loro indebitamento. Si tratta del livello minimo dal 2008, l’anno della grande crisi finanziaria. Nonostante la profittabilità delle aziende americane sia migliorata la leva finanziaria (cioè il debito in rapporto ai profitti operativi) è elevata. Per le società che hanno un merito di credito alto (“investment grade” in gergo) il rapporto tra debito e margine operativo è di 2,5 volte mentre per quelle con rating spazzatura siamo addirittura a 5 volte. In entrambi i casi siamo ai massimi da un decennio a questa parte.