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 2017  novembre 04 Sabato calendario

Intervista a Hans Ulrich Obrist: «Un artista in ogni azienda per abbattere i confini della cultura»

Nella settimana in cui Torino vive d’arte Hans Ulrich Obrist cerca spunti. Lo hanno chiamato «Mr Arte», temuto, inseguito, criticato, corteggiato, atteso, sta nella top ten della classifica dei potenti del settore che ha anche dominato l’anno scorso. Ha curato la mostra che ha appena inaugurato all’Hangar Bicocca di Milano, Take Me (I’m Yours) e ora passa da un dibattito al Castello di Rivoli con Anna Boghiguian, viaggiatrice con mille origini e una sola fissazione, creare, a uno ad Artissima con il sassofonista Kamasi Washington.
Quando dorme scusi?
«Fino a qualche anno fa quasi mai. Ora ho imparato che il sonno serve perché se non riposi abbastanza perdi i sogni e quando succede significa che non sei più lucido».
Quindi ha rallentato?
«Insomma... ho assunto una segretaria di notte».
Suona ambiguo.
«E non lo è. Fino alle 11 di sera si lavora poi io lascio, dormo e il mio aiuto notturno subentra: trascrive, sistema, imposta l’agenda in base ai cambiamenti e all’alba riparto molto più organizzato».
Tiene ancora l’Early Club, il gruppo che si ritrova quando finisce la notte?
«Certo che sì, è sempre più allargato. È il momento ideale per coltivare i rapporti con gli amici veri. Devi volerti vedere, non c’è caos in giro e visto che succede dalle 3 alle 6 del mattino nessuno può dire di avere un altro impegno».
Come ha trovato Torino?
«In grande forma, è una città polifonica capace di collegare i musei, le gallerie, le fiere. Vedo del coraggio. La mostra di Boghiguian a Rivoli è la prova di quanto un artista può spingersi oltre i normale significato che attribuiamo agli oggetti».
Lei chiede sempre agli artisti di mostrarle i progetti non finiti. Perché?
«Gli incompiuti sono un magazzino di idee, magari non tutte sono nate per essere portate a termine, ma tante sono più complete di quanto si pensi, altre hanno ancora vita davanti. Non sono ancora fissate in strutture definite, in quel materiale c’è un potenziale pazzesco».
Il suo progetto non finito?
«Il Black Mountain college, una scuola d’arte che ora non esiste più o anche una grande esposizione sui progetti non finiti. La stessa idea che si moltiplica e cambia forma. Nel cassetto ci sono tante cose. Nella testa di più. Penso alla realtà aumentata, alle strade che offre. La tecnologia dà la possibilità di mischiare le discipline in modo inedito».
Eppure lei comunica con i post-it via Instagram. Un linguaggio analogico.
«Mi diverte e io credo nell’analogico, studiare altri media non significa affatto archiviare quelli usati fino a qui. Chiedo sempre alle persone che condividono le mie giornate di mettere delle frasi sulla carta. La parola scritta è potente. Anche via social funziona».
Si sente un fabbricatore di tendenze?
«No, trend non significa nulla, vado dove mi pare di vedere il talento, dove intuisco una forza creativa».
Non dove potrebbe trainare il mercato?
«Incontro artisti ogni giorno ormai e mi convince solo l’energia. Non mi interessa essere riconosciuto, probabilmente sono più utile ora che posso aprire delle porte però».
L’arte può essere utile?
«L’arte può solo essere libera. Se la incastri in un dovere la soffochi, quindi non credo che bisognerebbe avere uno scopo davanti a un’opera, non esistono agende per la creatività però i musei dovrebbero essere gratis almeno per chi non se li può permettere. L’altro giorno, su un taxi a Londra, ho convinto un ragazzo che non ci era mai andato a visitare un museo. Ecco, questo lo definirei un successo».
Quindi l’arte non ha un ruolo sociale?
«Trasforma solo se non è pensata per farlo a tavolino»
Che si può fare per liberarla?
«Darle possibilità, linfa, farla uscire dai canali prestabiliti. Sarebbe stupendo che ogni azienda, anzi ogni grande ufficio, ospitasse un artista in residence. Si creerebbe una mappa culturale».
Le donne nell’arte contano quanto gli uomini?
«La globalizzazione ha aperto tutto, anche certe frontiere ideologiche. In questo momento il tema è particolarmente delicato e non è un caso che proprio ora si veda spesso la sensibilità femminile calpestata. Sono più visibili, più potenti. Anche nell’arte sì. Prendete Torino: Carolyn Christov-Bakargiev, con cui lavoro spessissimo, dirige Rivoli per esempio. Sono orgoglioso delle mie colleghe curatrici, di quanto incidono e spostano. Delle scoperte a cui arrivano per prime e che sanno imporre. Non è una strada in discesa però è un percorso che c’è. E indietro non si torna».
Lei dirige la Serpentine Gallery di Londra. Come si lavora lì ai tempi della Brexit?
«In queste nuove forme di nazionalismo c’è una profonda mancanza di solidarietà. Sono aride. In Inghilterra come altrove, si usa la scusa dell’identità per arretrare e coltivare piccoli e grandi fascismi. È una posizione disperata, non tanto la Brexit, quanto questa idea di poter fermare il tempo, il flusso naturale».
Però esiste davvero un gran numero di persone che si sente minacciata.
«Mondialità e località non sono parole in conflitto. Chi ha paura di perdere identità forse ne ha una non troppo definita. Non siamo isole, siamo un arcipelago. E tanti si sentono minacciati perché c’è chi fa grancassa. Per esempio Trump, che è in buona compagnia comunque. E poi sentirsi minacciati è un po’ una moda».
Prego?
«Ma sì, impauriti dalle tecnologie, dal linguaggio, dalle novità, dalle migrazioni però intanto qui si rischia il collasso ecologico, l’estinzione e di quello ci si preoccupa molto meno. Potrei fare una lista di situazioni che ci dovrebbero agitar e ci lasciano indifferenti».
A proposito di liste è vero che ne tiene una in tasca per aggiornare il vocabolario?
«Certo, si evolve più velocemente di quanto viene realmente modificato e poi dei vocaboli mancano. Ora sto cercando quelli che servono per definire il ponte tra arte e tecnologia. E poi adoro le liste. Ne faccio di continuo».
Non è ossessivo?
«No è un motore, l’elenco ti spinge a fare. E non ho bisogno di tempo libero, il mio lavoro mi appassiona: non me ne separo facilmente».