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 2017  novembre 03 Venerdì calendario

Salvatore Sciarrino, il compositore festeggia i 70 anni con due opere: «La vita come la musica vale solo se si trasforma»

«Non vedo differenza tra musica antica e moderna, tra classica e leggera. Il problema oggi è la mancanza di capacità di ascolto. Quando andiamo a sentire qualcosa, non siamo pronti ad accettare l’estraneo. Ecco perché la musica contemporanea viene considerata difficile, soprattutto in Italia. Perché non si è pronti a staccarsi da se stessi, ad ascoltare qualcosa di nuovo e non quello che ci si aspetta».
Salvatore Sciarrino, l’anno scorso Leone d’Oro alla carriera, indicato dalla rivista Classic Voice come uno dei dieci più grandi compositori al mondo, vive giorni straordinari. Alla Scala si prepara a debuttare, il 14 novembre, in prima mondiale, con la sua nuova opera Ti vedo, ti sento, mi perdo, di cui firma musica e libretto, ispirata alla vita e agli amori tempestosi di Alessandro Stradella. Al Teatro Massimo di Palermo, la città dove è nato, è protagonista di quattro giorni di celebrazioni che culmineranno stasera con la prima italiana dell’opera Superflumina, dedicata al tema della solitudine e dell’emarginazione.
E tutto in occasione dei suoi 70 anni, che lei ha compiuto ad aprile, sei mesi fa. Che impressione le fa?
«Mi fa sorridere, io che non ho mai festeggiato un compleanno, neanche il mio diciottesimo. Ma in realtà mi fa molto piacere. Soprattutto l’omaggio della mia Sicilia, la mia cara Sicilia così riconoscente e affettuosa oltre ogni mio merito. Dieci anni fa l’Università di Palermo mi ha pure dato la laurea honoris causa in Musicologia, ed è una cosa che mi ha creato un cortocircuito interiore. Perché tutti i problemi con mio padre erano legati al fatto che non fossi laureato, per lui la musica era un’idea priva di senso».
Già, compositore lei lo è diventato da autodidatta. E adesso è celebrato in tutto il mondo. Vuol dire che la scuola non serve?
«La creatività non può stare nei canali standard, lo standard uccide, le cose più interessanti arrivano dall’underground. In Italia la situazione è particolarmente difficile, altrove ci sono i soldi per le scuole, c’è il sostegno per i giovani compositori. Nel nostro Paese no. E allora non stupiamoci se non c’è più capacità di ascolto, e la musica viene usata come sottofondo a tutto quello che è visivo. Persino Beethoven sta sparendo, solo due cose lo tengono ancora in piedi, “Per Elisa” e l’Inno alla Gioia. E Puccini non è certo amato per le cose che scrive e per la sua problematicità, ma per “All’alba vincerò”. La strada è essere se stessi, unici, individualizzarsi. Ma il mondo è pieno di gente che porta le stesse magliette firmate con la stessa scritta sopra».
Al Teatro Massimo di Palermo sta per debuttare la sua «Superflumina» in un allestimento sorprendente: via le poltrone dalla platea, dove si svolge l’azione, il coro sul palcoscenico, il pubblico sul palco. Che sensazione prova a vedere ogni volta una sua opera trasformarsi nelle mani del regista?
«Mi piace, credo che ogni opera sia destinata proprio a questo, a trasformarsi. È sbagliato pensare al rispetto ortodosso delle volontà dell’autore, io conosco dei colleghi che vivono così, andando in giro come forsennati a controllare le proprie esecuzioni. Ma è nel tradimento che un’opera vive. Shakespeare lo leggiamo in italiano, e non è certo trasposizione da poco. Ma la Terra stessa si trasforma, tutto si trasforma, al di là della nostra piccina e possessiva ed estatica visione della vita che in realtà è amore della morte. Perché bloccare la trasformazione è morte. Neanche il marmo è marmo per sempre. Lo stesso Mozart che cosa direbbe se sentisse oggi suonare la sua musica, lui abituato al suono del fortepiano? Perfino la filologia è un’invenzione».
Mi racconti qualcosa della nuova opera che debutterà alla Scala…
«La musica come nostalgia, il canto delle sirene come pericolo, il mare come avventura, quel mare che oggi affrontano i nostri migranti. E che per me, siciliano, è l’attraversamento verso l’ignoto».