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 2017  novembre 03 Venerdì calendario

Alla banca centrale arriva il presidente non economista. Il neo nominato Jerome H. Powell

Un avvocato alla guida della Federal Reserve. È questo il vero elemento di discontinuità nella decisione di Donald Trump di nominare Jerome H. Powell alla presidenza della Fed. Perché “Jay” Powell è, dopo decenni, il primo governatore non economista alla guida della politica monetaria statunitense.
Powell ha un profilo molto diverso da quello dei predecessori. Laureato in Politics alla Princeton University, è poi diventato Juris Doctor alla Georgetown University: un curriculum di studi, quest’ultimo, che non prevede in genere una specializzazione in economia. È stato quindi avvocato e poi banchiere di investimenti nel settore finanziario: è subito diventato associato nella banca di investimenti Dillon, Read & co., poi acquisita dalla svizzera Sbc prima della fusione con la Ubs, e nel ’95 è passato al Carlyle group, uno dei più grandi gruppi finanziari nel mondo. È stato poi assistente segretario e sottosegretario al Tesoro durante la presidenza di George Bush padre, occupandosi delle istituzioni finanziarie e in quella funzione contribuì al salvataggio della Salomon Brothers coinvolta dallo scandalo dei Treasury Bonds: aveva tentato di aggirare il sistema che imponeva limiti all’acquisto da parte di ciascun istituto ammesso al mercato primario.
Per trovare un giurista alla guida della Fed occorre tornare indietro a George William Miller, rimasto in carica per cinque mesi nel 1978. Miller prese il posto di Arthur Burns, l’economista che guidò la Fed dopo il “regno” ventennale di Bill Martin (che aveva studiato inglese e latino...). Dopo Miller, e per 40 anni, al vertice della banca centrale sono stati scelti solo economisti, alcuni dei quali accademici: Paul Volcker, che iniziò la sua carriera come ricercatore alla Fed di New York, poi Alan Greenspan, Ben Bernanke e infine Janet Yellen.
Non sorprende allora che Powell – che pure si è guadagnato, sembra, il rispetto dello staff economico della Fed – sia molto più attento ai temi della struttura del sistema finanziario che alla politica monetaria. Le sue posizioni su questo aspetto, riassunte in un discorso all’Economic Club di New York, a giugno, non presentano una particolare originalità: «Se l’economia continuerà a muoversi come previsto, penserei che sia appropriato continuare ad alzare gradualmente i tassi», disse in quell’occasione.
I Fed Watcher, gli analisti che seguono la banca centrale Usa, pensano che sotto la sua guida i rialzi dei tassi potrebbero leggermente accelerare, ma senza strappi. Questo orientamento fa apparire la sua nomina come una scelta di continuità: il nuovo presidente non ha mai votato, del resto, in dissenso con la maggioranza e ha decisamente mantenuto un profilo bassissimo. Anche se – appena nominato – sembra sia stato scettico, in privato, sul lancio della terza fase del quantitative easing da parte di Ben Bernanke.
Sarebbe sbagliato pensare a Powell, fino a ora unico repubblicano alla Fed, come a una quinta colonna di Trump all’interno della banca centrale. L’attuale amministrazione vorrebbe una nuova liberalizzazione del sistema finanziario, dopo l’irrigidimento delle regole previste dal Dodd Frank Act. Il nuovo presidente della Fed, provenendo dalla finanza, è sicuramente contrario ai pesi inutili imposti dalle regolamentazioni del dopo crisi e da quelle più rigide imposte in questi anni dalla stessa Fed.
È però convinto che le regole introdotte nel dopo crisi abbiano reso più resiliente il sistema bancario americano. «Requisiti di capitale più rigidi – ha per esempio detto a giugno in un’audizione al Senato – aumentano i costi per le banche e almeno alcuni di questi costi sono trasferiti ai clienti. Ma nel più lungo termine, requisiti prudenziali più forti per le grandi aziende bancarie produrranno una maggiore disponibilità di credito e una più alta crescita economica».
La sua attenzione sembra essere rivolta soprattutto al tema delle dimensioni delle aziende di credito. Per le più piccole, alcune regole possono introdurre pesi eccessivi e Powell sembra dunque favorevole a renderle meno stringenti. Più severo è spesso apparso verso le grandi banche. «In ogni caso – disse nel 2013 in un discorso all’Institute of International Bankers – il fenomeno degli istituti “troppo grandi per fallire” deve finire, anche se questo dovesse comportare misure più invadenti».